Mosul, l’Isis distrugge l’antica moschea

L’area archeologica di Palmira, le statue leonine della porta di Raqqa, le mura di Ninive. Monumenti e storia di popoli che conserviamo nel nostro immaginario come depositari della cultura da cui nasciamo, il Tigri e l’Eufrate come culla delle popolazioni moderne. Negli ultimi giorni l’Isis ha distrutto – e confermato mandando un video – la moschea più importante della città di Mosul, la Grande Moschea di al Nuri, da cui, nel 2014, Abu Bakr al Baghdadi annunciò la nascita del Califfato Islamico.
La distruzione della moschea, che si trovava nella zona di Mosul ancora controllata dall’Isis, circondata dalle truppe irachene che avevano annunciato un’offensiva militare per riconquistare la zona della moschea, segnando così la sconfitta dello Stato Islamico in città. Subito dopo la distruzione da parte dell’Isis – attribuita da loro a un attacco aereo americano – che così, in apparenza, distrugge un suo simbolo e ammette una sconfitta. Oppure, togliendo agli iracheni la possibilità di conquistare quel simbolo, incolpando gli americani, avvallerebbe le teorie che vogliono lo Stato Islamico come strumento nelle mani di qualcuno di molto più grande.
Quello che ne consegue nell’immediato è però la perdita di un altro di quei tasselli di storia: la moschea di Mosul, e il suo minareto immediatamente riconoscibile, perché inclinato, sono stati per secoli uno dei simboli più noti della città e del mondo islamico, un simbolo con cui le persone si identificano da sempre, che compare in fotografie e addirittura sulle banconote da 10mila dinari iracheni. Una distruzione quindi che non tocca civili, che va oltre la morte e oltre la materialità stessa: distruzione che tocca la morale e gli animi di civiltà che, a guerra finita, ricostruire senza radici sarà difficile.

Di Giusy Patera