Il lotto 285 – capitolo venticinque

“The realities of the world affected me as visions, and as visions only, while the wild ideas of the land of dreams became, in turn, – not the material of my every-day existence – but in very deed that existence utterly and solely in itself.” *

Edgar Allan Poe – Berenice

   * “Le realtà del mondo mi apparvero visioni, e nient’altro che visioni, mentre le fervide forme della terra dei sogni a loro volta divenivano non già la materia della mia esistenza quotidiana – ma in verità quella stessa esistenza, totalmente e unicamente.” (trad. di Giorgio Manganelli)

Sogno di Pàl, aguzzina e amante.

   Mi trovavo, in pieno giorno, su un’altura, da sopra la quale si poteva scorgere tutt’intorno un paesaggio rurale, con qualche rada casa che si perdeva all’orizzonte. C’era solo un viottolo che scendeva dal poggio e incontrava un unico agglomerato di case dove di fronte alla strada si poteva notare una stazione di posta, o qualcosa di simile, con un’insegna ben in vista che indicava una locanda, un posto di ristoro, ed una rimessa per custodire gli animali.

   A che cosa servisse quel luogo così antiquato, in piena campagna e fuori dalle vie di comunicazione non so dirlo, ma venni attratto dalla strana solitudine che emanava, così da come era deserto il colle sulla cima del quale mi trovavo. Ma un sogno, si sa, svela a poco a poco i suoi elementi, la presenza di entità viventi, la loro collocazione nel tempo e nello spazio, la motivazione del loro apparire.

   D’un tratto, mentre mi avviavo a scendere per raggiungere quella solitaria fattoria, mi trovai davanti a un posto di blocco, probabilmente della Guardia Nazionale, dal quale mi venne incontro una giovane donna che mi fermò con un altolà deciso ed imperioso. Aveva in mano qualcosa che sembrava uno scudiscio e con quello mi impose di mettermi da un lato.  Alta, magra, con una giubba grigioverde e pantaloni a sbuffo, a prima vista non sembrava una delle ausiliarie della Repubblica Sociale, le  quali erano solite portare la gonna e il largo basco spiovente su un lato del capo. Sotto quell’espressione minacciosa nascondeva però un lieve sorriso e sembrava non avere alcuna intenzione bellicosa, anzi, prendendomi in disparte, mi sussurrò all’orecchio qualcosa riguardo a un appuntamento, ad un’ora ed ad un luogo preciso.

   Ci rincontrammo, così, ad un tavolino del bar all’aperto della locanda, alla fine della discesa e ci presentammo. Disse di chiamarsi Pàl. Sentendola parlare capii che era ungherese, per quell’insolita ed unica tendenza di aprire le vocali chiuse e chiudere le vocali aperte, tipica dei magiari e dei serbi quando affrontano la nostra lingua. Il suo nome mi confermò la sua origine dall’Est europeo, ma come nome si usava al maschile, così pensai che fosse un nome di copertura, quindi anch’io usai, nel colloquio, uno dei miei quattro nomi di battaglia.

   Nel sogno credevo di averla scambiata per un’altra persona, una persona,  come dissi all’inizio, che avevo amato e che ora si ripresentava a me con fattezze diverse, guerresche, inquietanti. Del resto, ormai avviato alla lotta armata, qualsiasi vera o immaginata presenza mi rendeva sospettoso anche se nell’animo nutrivo ancora quella nostalgia che anche gli uomini forti a volte percepiscono, ma, per distogliermi da quelle sensazioni, non mi rimaneva altro che fidarmi di quella giovane donna che avevo davanti. I suoi gesti e la sua espressione erano netti e decisi, quasi fosse stata da tempo addestrata a comandare. Visto che la stavo guardando con attenzione e pensando che dovesse spiegare ad un civile in qualche modo sequestrato le ragioni dell’incontro, si alzò di scatto e mi fece segno di seguirla all’interno della locanda. Sul pavimento, in un angolo della sala di mescita, dietro il bancone, mi indicò una botola.  Nella sala non c’era nessuno tranne noi due.  Nell’avvicinarmi al pertugio che lei aveva nel frattempo aperto, notai, affissa sul muro di fronte, una grande bandiera con uno stemma che rappresentava un teschio e due tibie incrociate, circondato da un motto in caratteri cirillici che, seppi dopo, diceva “Per il Re e per la Patria, libertà o morte.”.  Quella ferale espressione mi fece venire in mente il paragone che avevo fatto, non molto tempo addietro, con una frase simile che in parte coincideva con la denominazione che era stata attribuita al nostro gruppo di azione che avevamo fondato, i miei compagni ed io, intorno a una fontana, in un giorno di sole. Ma subito venni distolto da quei ricordi da uno scossone che la mia “guida” mi aveva dato per farmi scendere nel cunicolo, per fortuna munito di una ripida scala. Mi trovai in un ambiente freddo, scuro, che era formato da un lungo corridoio sul cui lato destro si intravedevano delle porte a grata e delle piccole stanze semibuie, che ricevevano una pallida luce da una bocca di lupo aperta sulla sommità della parete di fronte. La giovane donna, senza profferire parola, mi spinse verso una di quelle grate, l’aprì con una vecchia chiave che cigolò nella toppa, e mi fece entrare, sempre tenuto a bada dallo scudiscio, nell’abitacolo. Chiuse poi l’ingresso dietro di sé e se ne andò.

   La cella (perché di questo si trattava), il cui aspetto, notai, si attagliava a quella che io fino ad allora immaginavo dovesse essere una vera prigione, non essendoci ancora stato, era spoglia, con una brandina e un bugliolo, ma senza alcun tipo di strumenti di tortura, anche perché, dicevo fra me e me, non avevo niente da confessare ed anche se l’avessi avuto non l’avrei fatto.

   Era nel frattempo calata la notte.

   “Fino a quel punto non avevo aperto gli occhi. Sentivo di essere sdraiato sul dorso, slegato.  Stesi la mano, urtò qualcosa di umido e duro. Rimasi immobile alcuni minuti, mentre cercavo di immaginare che mai fosse, e dove. Desideravo e non osavo guardare. Temevo il primo sguardo agli oggetti che mi stavano attorno. No, non temevo di scorgere cose orribili, ma questo mi terrorizzava, che non vi fosse nulla da vedere. Alla fine, con disperato folle coraggio, bruscamente apersi gli occhi. I miei più tristi pensieri trovarono conferma. Il nero di una notte eterna mi circondava.”

   “Ero coperto di sudore, mi si gelava in grosse gocce sulla fronte. L’angosciosa incertezza divenne intollerabile, e cautamente mi mossi, le braccia tese in avanti, gli occhi che mi uscivano dalle orbite, nella speranza di cogliere un tenue raggio di luce. Procedetti per molti passi; tutto era buio, e vuoto. Respirai più liberamente.”

“Il terreno era umido e scivoloso, per poco procedetti barcollando, quando ecco inciampai e caddi. La stanchezza estrema mi indusse a restarmene bocconi; e tosto in quella posizione mi prese il sonno.”

   “Al risveglio, stesi il braccio, ed accanto a me trovai un pane e una brocca d’acqua. Ero troppo sfinito per riflettere su tale circostanza, ma mangiai e bevvi avidamente.”

   (Questo funambolico passaggio mi è stato ispirato, per la verità, in una notte insonne, dalla lettura di altri scrittori, molti dell’ottocento, e soprattutto da quello il cui scritto compare in epigrafe, di cui ci sono tracce all’interno dell’ intero romanzo, delle quali, quasi certamente, il lettore attento si sarà accorto.).

di Maurizio Chiararia

(continua)