Il Primo Re dopo Romolo è oggi Remo
Si potrebbe pensare che il senso ultimo del film Il Primo Re, di Matteo Rovere, sia il passaggio dalle origini magmatiche, caotiche, brutali di Roma alla sua fondazione come grande civiltà della storia umana. Certo, il film ci narra anche questo. Se però il significato di tutti i 127 minuti di proiezione fosse solo questo, ci troveremmo di fronte a una narrazione che riguarda solo il passato. Un punto X di un passato rimasto sepolto sotto i quasi tremila anni passati dalla fondazione di Roma nel 753 a. C a oggi.
C’è sempre da ricordare che un’opera assume una sua autonomia espressiva al di là delle intenzioni dell’autore. Quest’ultimo, infatti, è spesso guidato più che dagli stimoli consci da quelli inconsci. Ossia da quelli derivano dalle profondità della lingua, del pensiero, della cultura che agiscono in noi anche quando e, anzi, ancora di più quando non sono consapevolmente avvertiti. In questo senso l’opera è più espressione di una necessità inevitabile della società, che di una geniale, contingente invenzione personale. Potremmo anche dire che la necessità generale si veste, ha bisogno di questa genialità individuale.
Per questo si deve affermare che il senso di tale film attiene più al presente, al futuro che a quel remoto passato originario. A proposito di origine, anche qui va precisato che essa non è un che di immobile rimasto sepolto sotto il cumulo immane dei millenni, ma un senso che continua a scorrere vivo nel sottosuolo di ogni tempo. Così è come se il film ci riproponesse oggi un conflitto che fu alla base di quella fondazione. Un conflitto risolto allora con la spada, con la violenza, ma che ha continuato a camminare intatto nelle viscere di tutta la civiltà fino a riproporsi in tutta la sua attualità nel nostro presente.
Torniamo al racconto cinematografico. Il senso dell’origine è reso attraverso la recitazione degli attori in una lingua latina arcaica, ricostruita con la collaborazione di esperti di storia e letteratura romana antica. Recitazione accompagnata da imprescindibili sottotitoli, trattandosi di una lingua perlopiù ipotetica, anche se alcune frasi e parole risultano comprensibili, assonanti, anche per chi non ha studiato il latino a scuola. L’altra espressione dell’origine sono i paesaggi, gli ambienti fluviali, attinenti soprattutto al fiume Tevere che tanto ruolo svolge nel racconto sul cammino dei due fratelli Romolo e Remo. Paesaggi naturali e ambienti fluviali che noi oggi non possiamo più vedere. Per restituirceli, Matteo Rovere e la sua troupe sono andati a riprenderli in Ungheria e soprattutto in Colombia, per ritrovare immagini incontaminate, aurorali.
Il magma caotico, brutale originario è mostrato fin dalla prima scena sia nella natura, nelle acque, sia in quegli uomini incapaci di dominarla e schiacciati allo stato di un’animalità fatta di fango, sporcizia, istinti atroci e feroci. C’è solo una fiammella che arde dentro il braciere di una proto-sacerdotessa della spietata tribù di Alba Longa. Romolo e Remo, sono imprigionati dagli albesi insieme ad altri schiavi, e costretti a combattere tra loro come bestie sanguinarie, che non devono avere alcuna pietà nell’uccidersi l’uno con l’altro. I due fratelli si ribellano, liberano gli altri, combattono, e riescono a fuggire. Le scene del combattimento sono di una brutalità scannatoria, che sono senz’altro citazioni da altri film – come Revenant, Redivivo, con Leonardo De Caprio (2015) –, ma qui rese quasi al limite con un film dell’orrore vero e proprio. Qualche spettatore si copre gli occhi, perché la vista è a tratti insopportabile. Immagini non fini a sé stesse, però, ma sempre per marcare meglio il distacco rappresentato dal successivo passaggio alla necessità di una civiltà.
Romolo, ridotto in fin di vita, impossibilitato anche a camminare, una sola cosa chiede al fratello. Di portare via nella fuga il fuoco, il Dio, la sacerdotessa che lo reca, lo custodisce e lo alimenta. Lì c’è il primo, indispensabile barlume di civitas, città, civiltà. La sacerdotessa si chiama si chiama Satnei ed incisivamente interpretata come un’ombra ma sapiente muta da Tania Garribba. Lei li segue, proteggendo Romolo, continuando a scrutare distaccata il destino, la destinazione finale del gruppo. Da questo momento protagonista del film, sino alle scene finali, diventa Remo, nell’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi. Romolo – febbrilmente interpretato da Alessio Lapice – moribondo, trascinato sulle spalle dal fratello tra le insidie della foresta, è Remo che guida il gruppo di animali-schiavi, sottomettendoli a sé, al suo dominio con la forza prima di tutto del suo coraggio che della sua lama sguainata. Sfida i più riottosi a viso aperto, dimostrando un superiore spregio della paura. Proprio come spiega filosoficamente Hegel nella dialettica tra servo e padrone. Li sventra digrignando i denti e urlando come un lupo, proclamandosi in questo stesso atto loro Re. Proprio come, qualche secolo più tardi, ha filosoficamente spiegato Hegel avviene nella dialettica servo/padrone.
Alessandro Borghi ha spiegato come lui e gli altri attori siano riusciti ad attingere tale livello di rappresentazione proto-linguistica e brutal-realistica insieme. Cuffie, prima delle riprese, con questo pseudo latino arcaico alle orecchie tutto il giorno. Andare a dormire, durante la lavorazione del film, con il fango e il sudiciume accumulato durante le scene, senza lavarsi, farsi la doccia, tanto che l’albergo ha messo in conto alla produzione non solo il costo delle camere affittate ma anche quello delle lenzuola da buttare direttamente via dopo ogni nottata.
Nello scontro vittorioso con i Veliniensi, nella conquista del loro villaggio, Remo assurge alla verità che non esiste nessuna verità cui debba sottomettersi. La verità un vero Re se la costruisce, se la fa da solo, nel corso del suo cammino e delle sue conquiste, con la forza della propria volontà, ambizione, determinazione. Se c’è una verità superiore – come quella del fuoco, del Dio custodito dalla sacerdotessa – un Re non può essere un vero Re, perché ce n’è uno sopra di lui che lo determina, lo muove come una marionetta dei suoi imperscrutabili disegni.
È proprio questo il tratto della modernità del film. Il tratto irrisolto del conflitto fratricida tra Romolo e Remo. Il fuoco, simbolicamente, rappresenta non solo il divino, la religione, ma il principio di sottomissione a dei limiti, ossia a una Lex. Senza Legge non può fondarsi una civiltà. Romolo traccia un solco sulla sponda del Tevere che segna questo limite, questo recinto sacro di una Lex, umanamente eletta a divina. Chi la oltrepassa non solo è fuori della Civitas, ma è contro, nemico di essa. Va ucciso, perché la distrugge. Così Romolo fonda Roma. Sul filo della stessa lama spietata affilata da Remo. Di essa ogni altro popolo deve avere paura, terrore, sì, ma dentro il cerchio sicuro delle Leggi.
Remo, spirando, chiede a suo fratello di portarlo con sé, oltre quella sponda e di seppellirlo nella terra, ossia nel sottosuolo della nuova città, civiltà. E Remo non si è limitato a restare immobile, imputridendo sotto quelle zolle, ma ha percorso tutti questi millenni che arrivano fino a noi. L’uomo contemporaneo, infatti, ha proceduto ad abbattere fedi, credi, ideologie filosofiche, leggi politiche e verità sociali. Persino scientifiche. Il non-limite, il non porsi, lo sbarazzarsi di ogni limite e verità necessaria, anzi, è da tempo il motore primo dell’attuale apparato tecno-scientifico dominante l’intera civiltà occidentale e – attraverso essa – l’intero pianeta. Un dominio che segna ormai il anche declino di quel limite legislativo, formale e valoriale di governo chiamato democrazia. Il conflitto fratricida è così tornato come rappresentazione artistica, proprio perché realtà in atto. Oggi, però, Remo riemerge dalle viscere del tempo e della terra non solo più sfrontato ma decisamente più potente di prima.
di Riccardo Tavani