Il macabro processo dell’anno 897

Tra le tante incredibili storie che hanno per protagonista la città eterna, una tra tutte, oltre che suscitare stupore, genera anche un senso di inquietudine e rende l’idea del clima che tra il IX e l’XI secolo governava la città di Roma.
Parliamo infatti del periodo in cui il papato fu più limitato nelle sue azioni e nelle sue scelte, stretto nella tenaglia delle famiglie romane (e italiane in generale) e degli imperatori del Sacro Romano Impero che molto spesso erano in contrasto tra loro e avocavano a sé l’approvazione della loro carica da parte del pontefice.
Parliamo di Papa Formoso, protagonista di un processo che lo vedrà imputato ma nel quale egli, pur prendendovi parte, non potrà difendersi personalmente: era infatti morto mesi prima dell’istituzione di tale processo.
Il suo pontificato fu attraversato dalla crisi che contrapponeva Guido II di Spoleto, nominato imperatore da Stefano V, a colui che deteneva tale titolo de facto: Arnolfo di Carinzia.
Pur appoggiando le pretese di Arnolfo, Formoso non poteva apertamente schierarsi con lui, data la lontananza del primo da Roma, e pertanto riconobbe a Guido II, che incombeva sulla città e che poteva contare su numerosi sostenitori.
Tuttavia il Papa scrisse spesso ad Arnolfo, invitandolo a marciare in Italia per sbaragliare Guido e ottenere così il titolo di imperatore a tutti gli effetti.
In un primo momento Arnolfo minaccio di calare in Italia, ma ciò non sortì alcun effetto.
Nell’894 Guido perì e il figlio Lamberto reclamò il titolo di imperatore. Formoso implorò Arnolfo di scendere in Italia, per prendersi così anche il titolo di Re d’Italia.
La fazione spoletina, furiosa per l’atteggia del pontefice, lo imprigionò a Castel S. Angelo.
Arnolfo si diresse verso Roma, liberò il Papa e fu incoronato. Si diresse poi verso Spoleto, ma una paralisi lo costrinse a rientrare in Baviera. Formoso si trovò scoperto: mori nell’896, probabilmente avvelenato.
Il suo successore Stefano VI, favorevole agli spoletini, e probabilmente su pressione di questi, fece riesumare il corpo di Formoso dopo quasi un anno dalla scomparsa. Vestito di tutti paramenti ufficiali, venne fatto accomodare su un trono allestito nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Secondo le fonti dell’epoca, mentre Stefano VI accusava violentemente Formoso, il suo cadavere pendeva su un lato del trono, il che rendeva la scena  piuttosto macabra. Alla fine, Formoso fu giudicato colpevole di tradimento, per aver chiamato in Italia un sovrano straniero: fu spogliato degli abiti, gli furono mozzate le tre dita con le quali, in vita, aveva impartito benedizioni e, dopo che fu trascinato per le vie della città, venne gettato nel Tevere.
Ma perché un processo ad un cadavere? Oltre che nella generale decadenza dei costumi, riscontrabile anche tra le più alte cariche ecclesiastiche, una spiegazione potrebbe giungere dal diritto germanico, che durante un processo prevedeva la presenza del corpus delicti, e quindi, in situazioni estreme, poteva prevedere anche la presenza di un cadavere.
Ad ogni modo, tale processo provocò ripugnanza nel popolo, che si ribellò allo scempio operato sul corpo di Formoso. Dopo poco tempo Stefano VI fu imprigionato e strangolato. Una volta recuperato, al cadavere di Formoso venne data degna sepoltura.
di Fabio Scatolini