Sono Nusrat e vi racconto perchè mi hanno bruciata, a scuola. Sia vostra adesso la mia battaglia …

E’ una storia atroce quella che sto per raccontare, è la storia di una giovane diciannovenne che nella sua scuola, in Bangladesh, ha subito molestie sessuali dal preside e il cui coraggio di divincolarsi e di denunciare l’accaduto è stato punito dai suoi stessi compagni dandole fuoco.
Nusrat Jahan Rafi, questo il nome della ragazza temeraria che ha sfidato il destino e creduto nella giustizia, in un paese in cui le donne tacciono per paura da parte delle famiglie e della comunità, è una vera eroina dei nostri tempi.
La stessa ragazza, dopo gli abusi e la denuncia ha rilasciato la sua versione dei fatti alla BBC, una dichiarazione che possiamo forse meglio comprendere immedesimandoci nelle sue parole, sulla base ormai di un evento che tutti conoscono e grazie alle molte manifestazioni di protesta che si sono tenute a Dhaka e in altre località del Bangladesh per chiedere giustizia per Nusrat.
“Il mio nome è Nusrat Jahan Rafi, ho diciannove anni e sono di Feni, una piccola città ad appena 160 chilometri a sud di Dhaka, studio in una madrasa ossia la classica scuola coranica. Il 27 marzo, un giorno che non potrò mai dimenticare, il preside mi ha chiamata nel suo ufficio e io sono andata. In fondo, un preside, è la massima istituzione nella scuola. Solo che, quasi da subito, da come mi guardava, da come si è avvicinato a me ho capito che qualcosa non andava, che la situazione stava prendendo una brutta piega. Mi ha toccata ripetutamente in modo inopportuno, inappropriato, sconveniente, osceno mentre io mi ritraevo. Poi ho capito che non avrei avuto salvezza se fossi rimasta lì e così sono fuggita per evitare il peggio, correvo verso casa, verso la mia famiglia, verso la salvezza e c’era tanta rabbia e umiliazione dentro me. Le lacrime, a tratti, venivano asciugate dal vento.
Con il sostegno dei miei familiari, cosa direi rara da queste parti, sono andata dalla polizia per denunciare ciò che mi era accaduto. Però, una volta arrivata lì, pronta a raccontare tutto, invece di trovare protezione e conforto, aiuto e tutela, un agente mi ha filmata. Ha filmato il mio racconto che è stato definito da tutti “poca cosa”. Poi hanno diffuso quel video, il mio video, su vari media locali. Ho capito allora che stavo combattendo con qualcosa di troppo grande per me eppure la mia voglia di lottare è rimasta indomita.
Così, quando hanno arrestato il preside, è stata organizzata una manifestazione dagli studenti dello stesso mio istituto e da alcuni politici: chiedevano di rilasciare lui e hanno incolpato me. Come se fossi una poco di buono. Sono diventata da vittima a carnefice per loro, colpevole solo di aver parlato, di aver osato dire una verità che tutti sanno facendo finta di non sapere. Ho rotto gli equilibri squilibrati della “loro” comunità dalla quale mi dissocio. E’ stato allora, che la mia famiglia, ha seriamente iniziato a temere per me, per la mia incolumità. Anche io avevo paura ma il desiderio di gridare giustizia non mi ha mai abbandonata.
Il 6 aprile, sono andata a scuola per sostenere il mio ultimo esame. E’ vero, avevo paura, non bisogna negare la paura ma sono stata fiera della mia voglia di tornare in quella scuola a testa alta. Perché io ero la vittima da difendere. Mio fratello mi ha voluto accompagnare ma non lo hanno fatto entrare. Forse avrei dovuto capire che già quello era un segnale d’allarme che avrebbe preannunciato un finale non lieto.
E’ stato a scuola che alcuni studenti mi hanno presa e portata sul tetto, il loro intento era quello di costringermi a ritrattare, a ritirare le accuse contro il preside ma… ma quando hanno capito che mai lo avrei fatto mi hanno cosparsa con il kerosene e mi hanno dato fuoco.
Sono diventata una torcia vivente, ricordo il dolore e la pelle che, come un foglio di carta, si staccava da me.
Scusate se parlo ancora in prima persona ma le mie idee vivono ancora e vivo io in questo racconto, vivo nelle manifestazioni di protesta, nelle catene umane che chiedono giustizia, nelle marce che sono nate spontaneamente contro i soprusi verso le donne.
Sono stata trasportata all’ospedale locale, il mio corpo era coperto da ustioni per l’80%. La situazione è sembrata al limite per tutti, anche per me. Mi hanno subito trasferita al Dhaka Medical College Hospital ma durante il trasporto in ambulanza ho capito che non ce l’avrei fatta.
E allora ho deciso di registrare con le ultime forze che avevo, un messaggio vocale per mia madre. A stento ma con determinazione ho detto: ‘L’insegnante mi ha toccata, combatterò questo crimine fino al mio ultimo respiro’.
Scusate se parlo ancora in prima persona anche dopo la mia morte ma le mie idee vivono ancora e vivo io in questo racconto, vivo nelle manifestazioni di protesta, nelle catene umane che chiedono giustizia, nelle marce che sono nate spontaneamente contro i soprusi verso le donne, vivo in chi avrà ancora il mio coraggio e in tutto il Bangladesh che è sceso in piazza chiedendo la pena di morte per chi ha ucciso me. Vivo e vivrò sempre in tutti coloro che avranno l’audacia di “osare” affinché la mia morte non sia stata vana.
Solo una parola per mia madre. Le chiedo scusa per aver voluto lottare da sola contro tutta una cultura che calpesta le donne… per la mia testardaggine che le ha sottratto una figlia. Io sento il suo dolore, posso vederla e soffro per il suo soffrire. Vorrei che fosse lei a guidare i cortei a Dhaka, perché nulla di ciò che ho fatto vada perso. Continua tu la mia battaglia mamma, sei una donna anche tu. Fallo per me ma soprattutto lotta per te stessa e per tutte le donne come noi”.

di Stefania Lastoria