Ellen Pao e la lotta contro le discriminazioni sul lavoro

Ellen Pao è una donna figlia di immigrati cinesi, con una laurea in ingegneria a Princeton, una in legge e una in economia ad Harvard. Una donna che ha girato il mondo, che crede in se stessa e mai e poi mai, finiti gli studi avrebbe immaginato di imbattersi nel faticoso mondo del lavoro. O forse sarebbe meglio dire che mai poteva pensare di dover fare i conti con la discriminazione e le disuguaglianze che si dipanano in una serie di ingiustizie su molteplici livelli per il mondo femminile: minori opportunità, stipendi più bassi, minore visibilità, frequente mancanza di rispetto e maggiori ostacoli, spesso subdoli, da cui difendersi.
Questa donna, coraggiosa e battagliera, dopo aver vissuto sulla sua pelle l’isolamento e l’emarginazione proprio nel “fantastico” mondo della Silicon Valley e cioè per intenderci nella culla dei grandi “innovatori”, nella patria di Facebook, Twitter, Airbnb, Pinterest, Asana e di tutte le piattaforme ‘democratiche’, ha deciso di scrivere un libro.
Un libro dal titolo “La guerra di Ellen”. Perché di una vera e propria guerra si è trattata, una lotta con il mondo e dentro se stessa che si è poi conclusa con una denuncia ed un processo, momento nel quale ha avuto origine questa sua testimonianza che l’ha portata ad ottenere un forte impatto mediatico proprio per il carattere inaspettato della vicenda. Come era possibile che un luogo così all’avanguardia potesse connotarsi in negativo per un caso di discriminazione di genere?
Il libro non parla di teorie femministe, racconta semplicemente la storia di Ellen, uguale a quella di tante altre donne.
Ed Ellen si apre alla gente con queste parole:
“Quando mi sono avvicinata al mondo del lavoro, con la mia preparazione, ero felice e soddisfatta di me stessa, dei sacrifici fatti, della mia determinazione e ostinazione nello studio. Immaginavo una realtà fatta di meritocrazia in cui tutti potessero avere gli stessi diritti e doveri, un sogno di equità e giustizia. Invece è stato proprio con i miei colleghi e senior partner che ho iniziato a riscontrare atteggiamenti discriminatori. Erano le donne che prendevano appunti alle riunioni, che si alzavano per portare biscotti e fare il caffè, che venivano guardate dall’alto in basso per osservare il loro abbigliamento ed essere per questo giudicate.
Il 60% delle donne riferiscono di aver subito delle avance sessuali indesiderate e molestie dai superiori ma non hanno fatto nulla per timore di ripercussioni. Basti pensare che il 98% degli investimenti riguarda aziende con a capo uomini e solo l’1% degli imprenditori è di pelle nera.
Io però tutto questo lo ignoravo fino a quando anche io sono stata colpita da quella che viene definita “morte per mille piccole ferite”.
Sono quei gesti, quelle richieste alle quali inizialmente non ci si fa caso ma che potrei sintetizzare come sottili forme di servilismo.
Fu allora che la mia rabbia esplose e divampò. Decisi da sola di condurre una battaglia contro tutte le diversità nella Venture Capital in cui lavoravo. E cosa ottenni? Solo vessazioni, emarginazione, umiliazioni, insulti, maldicenze, ostracismo, un processo perso e molti debiti per ripagare la causa per discriminazione. Allora arrivi ad un punto in cui pensi di dire basta, di fare un passo indietro, di mollare la presa, di considerare gli studi fatti come utili per una tua cultura personale. Perché il mondo, da soli, non si può cambiare se poi ti guardi alle spalle e vedi che nessuno ti segue. Diventi un facile bersaglio nel gioco dei proiettili vaganti.
Il mio libro non parla solo di discriminazione, parla di lavoro.
Racconta di come ci accontentiamo di essere infelici perché ci hanno detto che noi donne non abbiamo altra scelta, ci hanno convinte di essere grate per l’opportunità di lavorare, purché lo si faccia in silenzio.
Così, abilmente, ci hanno insegnato a piegarci a logiche ataviche e ingiuste.
E invece occorre riconfigurare le logiche del lavoro affrontandole politicamente, senza nessuna esclusione di genere, di razza, di ceto, di orientamento sessuale, religioso, di appartenenza territoriale.
Io dico al termine del mio libro di premere il tasto RESET e ricominciare, con fierezza, con determinazione, lottando fino all’ultimo respiro perché solo respirando liberamente possiamo tornare alla vita.
Le dimostrazioni di empatia e di solidarietà che ho vissuto fin da quando ho intentato quella causa mi hanno trasformato in un’attivista impegnata nel tradurre in realtà le nostre aspirazioni.
Io voglio che questa situazione cambi e dobbiamo farcela tutte insieme, almeno una parte di noi deve combattere affinché le future generazioni di donne, di persone non bianche, di immigrati, di disabili, di persone di religioni differenti e di chiunque voglia migliorare la propria azienda, la propria comunità locale o il Paese tutto, possano riuscirci. Abbiamo bisogno di un cambiamento, così quando le nostre figlie e tutte le altre persone saranno pronte per affacciarsi sul mondo del lavoro avranno un’equa possibilità di affermarsi.
Io non ho combattuto solo per me. Ho affilato le mie armi per tutte noi, per chi viene considerato ultimo in un mondo che non ti considera affatto, ho sofferto e pianto, qualcosa dentro me si è lacerato ma poi… poi ho ritrovato la forza di andare avanti. Lottare ancora e ancora senza risparmiarsi. Non lo faccio solo per me. Lo faccio per le nuove generazioni, per i nostri figli. Lo faccio per un mondo migliore perché adesso io so che insieme ce la faremo.
Io ce la farò e se devo essere un esempio da seguire che sia questo il mio compito nella vita. Se devo essere io prendervi per mano, datemi le vostre mani a formare una catena indissolubile. Sarà energia che scuoterà le coscienze, sarà questa la forza che metterà in moto la macchina del cambiamento. E allora io vi prenderò per mano ma voi… voi… datemi le vostre mani”.

di Stefania Lastoria