Il 25 aprile s’è fermato all’alba del 1° maggio

Non sono riusciti ad arrivare al 25 aprile. Per loro il cammino s’è fermato sulla soglia del giorno prima. Come Cristo che s’è fermato a Eboli.

Quattro operai morti il 24 aprile 2019, in quattro luoghi diversi d’Italia, ma tutti in quella simultaneità temporale che si chiama orario di lavoro.A Livorno, Vincenzo Langella, 51 anni; a Ravello (Salerno), Nicola Palumbo, 54 anni; a Savigliano, nel cuneese, Daniele Racca, 44 anni; nell’hinterland cagliaritano, Renzo Corona, 65 anni. In quest’ultimo caso, amaramente dobbiamo constatare: fine pena mai. La pena, la condanna alla fatica, che si dovrebbe scontare fino a quel sempre più mitologico giorno che si chiama pensione. Non c’è stata Liberazione per loro, neanche simbolica. Eppure il lavoro resta uno dei temi rituali più osannati dalla liturgia italica istituzionale. Molto più della Resistenza al nazifascismo, dato che appare nel Articolo 1 della nostra Costituzione: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”.  Poche, stringate, semplici parole da cui scaturisce però un fiume rigonfio di letale retorica.

Tutte le polemiche che sono state sollevate e si sono scontrate in questo ultimo 25 aprile 2019 dovrebbero ammutolire di fronte alle cifre apparse alla vigilia del 1° maggio. Vigilia che si identifica con la data del 28 maggio, proclamata Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro. Come sulle sponde del fiume Isonzo – eletto dal poeta Giuseppe Ungaretti a corso idrico di strazio bellico –, all’alba di questa giornata una strage di corpi lividi insanguina l’Isonzo del lavoro. Proprio come una guerra. Tanto che la celebre frase di von Clausewitz “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” andrebbe così modificata: “La guerra è la massima espressione logica del lavoro con i mezzi più appropriati”. Anche per questo non trascurabile aspetto la vera Liberazione esistenziale dovrebbe essere quella dalla dittatura del lavoro. Dal, e non del 1° maggio.

Vediamole queste cifre, elaborate dall’ Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro su dati INAIL e su un recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità. 1.113 morti, 641mila feriti, 59.585 malattie professionali denunciate per il 2018. Dall’inizio del 2019, invece, si contano già 206 morti sui luoghi di lavoro su 400 caduti complessivamente, tra cui chi,in itinere, da casa si recava a prestare il proprio servizio. 127 mentre guidavano cingolati, ruspe o trattori, 31 schiacciati sotto questo tipo di mezzi. I dati dettagliano la loro lugubre contabilità per città, provincie, regioni, nelle quali le zone del nostro sud primeggiano, con in testa quella di Crotone.

C’è poi il discorso delle patologie tumorali professionali, dove in testa sono le provincie metalmeccaniche piemontesi e lombarde, con il picco di Gorizia che tocca il 22,5% di incidenza sul totale delle altre. L’agente patogeno maggiore – con una percentuale del 70% – sono ancora le fibre di amianto o asbesto.

Da sola Taranto, però, è in testa per morti e malati di tumori, causa soprattutto le emissioni chimiche della ex Ilva. Tra i dipendenti di questo stabilimento c’è stato un aumento del 500% di patologie cancerogene rispetto a chi per sua fortuna non ci mette piede. Le patologie oncologiche, derivate da siti produttivi altamente inquinanti, colpiscono però anche oltre i reparti, i muri e i cancelli. Colpiscono la popolazione di ogni fascia di età – infantile compresa – e i generi sia maschile, sia femminile. Secondo dati in possesso dell’Istituto Superiore di Sanità chi vive nei 45 siti contaminati presi in esame ha un rischio di morte più alto del 4-5% rispetto alla media nazionale. Nella fascia di età tra 0 e 24 si è riscontrato un incremento di tumori maligni del 9%. Tra i 20 e i 29 anni un eccesso del 50%di linfomi Non-Hodgkin (in milza, timo e midollo osseo), e del 36% di tumori ai testicoli. Negli otto anni che vanno dal 2006 a tutto il 2013 ciò ha causato 11.992 morti, di cui 5.285 per tumori, 3.632 per malattie cardiocircolatorie.

L’aggressione militare-lavorativa contro l’umano da parte dell’umano stesso non può farci dimenticare quella ancora più devastante contro ogni aspetto dell’ambiente naturale. Si dovrebbe ricordare che nel 1965 per il nuovo polo siderurgico di Taranto fu abbattuta una popolazione di 20.000 rigogliosi ulivi e rasa al suolo una rete unica al mondo di storiche masserie. La violenza bellica dell’umano contro la natura – ai fini della sua totale sottomissione al profitto lavorativo-economico – non può che rovesciarsi direttamente contro l’uomo stesso, essendo anch’egli natura, prima ancora che storia. Attraverso il lavoro l’umano si toglie la maschera. Si svela come storia del disumano, dell’antiumano, ossia dell’agire contro ciò che l’uomo presume retoricamente di sé stesso. La minaccia di distruzione del nostro pianeta non viene dallo spazio ma da quel sottosuolo viscerale dell’umano reale, che è il suo ammazzare il mondo di fatica, di lavoro.

Solo un Dio ci può salvare, dichiara il controverso filosofo tedesco Martin Heidegger in un’intervista del 1966 al settimanaleDer Spiegel. No, nessun dio ascoso si scomoderà mai per una così folle impresa. Solo un nostro cambio di paradigma, ossia di coscienza, pensiero e visione ci sveglierà un giorno all’alba di un 25 aprile che sarà insieme anche liberazione dal 1° maggio.

di Riccardo Tavani