Cine-pillole trafugate dall’armadietto medico

Lucania. Terra Sangue e Magia.Inedito e intenso. Un Basilicata coast to coast drammatico e antropologico. Un padre e una figlia psico-sensibile fuggono attraverso valli e piccoli paesi montani fino al mare, per uno sanguinoso scontro a fucilate con mazzieri della speculazione petrolifera e della devastazione ambientale. Il contrasto tra bellezza naturale, radici arcaiche, etno-musicali e dramma umano va oltre i confini lucani e penetra nel cuore del nostro presente. Ottime interpretazioni di Joe Capaldo, Angela Fontana e Pippo Del Bono. Grande omaggio al vate cantore e musicista Antonio Infantino, scomparso nel 2018, in una delle sue ultime, magistrali apparizioni in voce e chitarra.

Aladdin. Gran Disney Musical. Dalla classica fiaba cartoon a quella spettacolare con attori in carne e ossa, effetti speciali, tra polvere, bazar, tramonti rosseggianti, furti e inseguimenti rocamboleschi, congiure di palazzo, amori camuffati, smascherati, con un Genio della Lampada anche lui intrigante e stregato da crudeltà di potere e croci-delizie sentimentali. Tutti gli ingredienti dell’atmosfera favolistica arabeggiante, con rapide graffiature politiche qua e là per attualizzarla. Forse, però, la vera, non voluta metafora attualizzante riguarda proprio il grande potere trasformativo del Genio. Come la scienza e la tecnica moderne sono ancora soltanto strumento passivo dei potenti o stanno rivendicando una loro libertà per la soluzione dei mali umani?

I morti non muoiono. Sotto le citazioni niente. Causa un lieve spostamento dell’asse terrestre, in una sperduta cittadina della provincia Usa, Centreville, i morti cominciano a scavare la terra da sotto, a uscire dalle tombe, a sventrare a morsi i viventi, zombizzandoli. Un capopattuglia di polizia con due giovani assistenti, un ragazzo e una ragazza, vagano allo sbaraglio nella notte per tentare di arginare l’avanzata mortuaria. Jim Jarmusch, il regista, cerca di fare propria la lezione di Quentin Tarantino: stratificare un film di citazioni e simulacri del genere cinematografico adottato. In questo caso l’horror-zombie. Inserisce, però, anche una scena di fantascienza, per sottolineare che è anche in grado di andare oltre il copione. Nonostante l’ottimo cast, Tilda Swinton, Bill Murray, Adam Driver, Cloë Sevigny, la storia riesce a dire ben poco, se non una striminzita morale finale: zombie lo si è già in vita, per la sottomissione a stili di vita e consumi.

A mano disarmata. Importante ma insufficiente. È la vicenda reale della cronista del quotidiano La Repubblica, Federica Angeli. A Ostia, dove vive, svolge un’inchiesta giornalistica che scoperchia il dominio assoluto dei clan malavitosi locali su tutto il litorale romano: bar, ristoranti, stabilimenti balneari, edicole e ogni altra attività. A seguito delle pesanti minacce e intimidazioni subìte da lei, con i suoi due figli è posta sotto scorta dalla polizia. Non rinuncia alla sua missione di verità e denuncia. Una storia che dovrebbero conoscere tutti. Spesso, però, i film di alto impegno civile non riescono a calibrare la forma cinematografica giusta. Questo non significa che il regista, Claudio Bonivento, si dimostri privo di capacità espressive, anzi. Solo che l’obiettivo produttivo primario non è tanto quello della resa qualitativa, artistica, quanto quello di raggiungere il più vasto pubblico possibile. E non sempre si riesce neanche in questo. Magari ci penserà poi la TV. Superlativa interpretazione di Claudia Gerini.

Il grande salto. Simpaticamente scarso. Due sfigati malviventi, appena usciti di galera, cercano di progettare un colpo che li faccia definitivamente svoltare. La iella, però, li perseguita in maniera caoticamente metodica. Non solo nel mestiere, ma anche in famiglia per uno, e con le donne per l’altro. Proprio quest’ultimo si convince che deve esserci un destino, un karma che trascende e acceca le loro vite. I due protagonisti, Ricky Memphis e Giorgio Tirabassi, che è anche il regista, cercano e in parte riescono a scassinare la divertita commozione del pubblico sulle loro catastrofi losco-esistenziali. Gli ingredienti, però, e il modo di metterli insieme risentono di un canovaccio e cliché già visti nella commedia italico-amarognola. Forse proprio per questo, vorrebbero approdare ad altri meno scontati lidi narrativi. D’altronde anche Salvini e Di Maio perseguono un obbiettivo simile.

Blue My Mind. Il segreto dei miei anni. Spiazzante e innovativo. Attraverso Mia, la protagonista, il film mostra ed estremizza consapevolmente le mutazioni psico-bio-antropologiche in atto presso le nuove generazioni. La ragazza ha prima difficoltà a inserirsi nel gruppo femminile di tendenza della sua nuova scuola, per diventarne poi, appena accettata, una leader. La regista, Lisa Brühlmann, elabora una cifra stilistica innovativa per rendere i nuovi modi, discorsi, ambienti, sballi, devianze, rischi, sessualità, alienazioni, crudeltà, rifugi, fughe giovanili dalla famiglia, fino a configurare fisicamente una dimensione totalmente altra, incomprensibile, inafferrabile, perdutamente irraggiungibile dai genitori. Una forma cinematografica originale ma necessaria per esprimere questa inquietante contemporaneità mutante. Per questo può spiazzare, risultare ostico al grande pubblico. Non si può rendere però l’inedito attraverso il già edito.

Beatiful Boy. Già edito. Proprio questo film ci fa capire meglio il confronto con quello precedente. È la storia vera di un giornalista amaricano, padre di un ragazzo che non vuole in nessun modo sottrarsi a ogni tipo di droga come piacere, libera volontà di deviare, di uscire dalla buona strada. Anche quando riesce del tutto e per un lungo periodo a pulirsi, tanto da insegnare ad altri come uscirne, lui sceglie poi lucidamente di tornare alle sostanze, e di sperimentarne anzi sempre di più nuove e deflagranti. L’immagine, il montaggio, il modo di narrare, però, denunciano già in sé, proprio nella loro classicità, un’altra epoca della società e del cinema. Il film è tratto sia da un libro del padre, sia da quello del figlio. Quest’ultimo è interpretato da Timothée Chalamet, protagonista del film di Luca Guadagnino, Chiamami con il tuo nome.

Sir. Cenerentola a Mumbai. Delicato suadente. La registaindiana Rohena Gera, al suo esordio, mostra una rara capacità di far compiere decisive svolte alla vicenda attraverso scene, inquadrature, sfumature di dettaglio che –visivamente appena accennate – arrivano allo spettatore in maniera limpida ed emotivamente forte. Ratna è una giovane vedova che viene un piccolo villaggio rurale. Lavora e risiede adesso come domestica a Mumbai, in casa di Ashwin, rampollo di un importante. costruttore edile della città. Il suo sogno, però, è diventare una stilista. Lo schema del racconto sentimentale è sempre lo stesso: difficoltà iniziale, incontro, perdita, trionfo finale. È davvero lo stile delicato, l’andamento suadente e pieno d’atmosfera cromatico-emotiva a riscattare e innovare tale struttura. Inoltre, qui, il motivo del contrasto e della perdita travalica i protagonisti quale reale, soverchiante potenza sociale e morale. Ratna è interpretata da Tillotama Shome. Ashwin da Vivek Gomber, il sosia indiano di Alessandro Di Battista. Proprio come il nostro Dibba, ciondolante e incapace di trovare una propria definitiva dimensione professionale ed esistenziale.

Carmen y Lola. Deliziosamente ribelleIn Spagna il matrimonio omosex è legale,ma la maledizione di un’intera comunità –  quella gitana di Madrid – si abbatte su due ragazze diciassettenni che scoprono la via lattea del loro primo vero amore: quello lesbo. E lo provano fatalmente l’una per l’altra. La solo idea di un amore gay tra donne è completamente inconcepibile in quella etnia. La vicenda prende spunto da un fatto vero. Ne scaturisce una storia insieme delicata, ribelle, ironica, comica, drammatica. Con i sogni, i sogni veri delle vere giovani, perché, come dice Lola all’amica d’infanzia Paqui: “A noi ragazze gitane non è permesso neanche di sognare”. Il film ha vinto due Premi Goya 2019: migliore regista esordiente a Arantxa Echevarría; migliore attrice non protagonista a Caroline Yuste, nel ruolo di Paqui.

 

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