Corsini e Hansen-Løve: luce e materia del cinema al femminile

Rendez-Vous, Nuovo Cinema Francese

dal nostro inviato al festival, Riccardo Tavani

Secondo il noto proverbio dio non paga il sabato, ma alla rassegna del Nuovo Cinema Francese questo è stato il sabato in cui le donne hanno pagato, ripagato, dato molto agli spettatori. Era una delle premesse e delle promesse di questo festival. Catherine Corsini con Un amour impossible, e Mia Hansen-Løve con Maya, per mezzi di una narrazione allo stesso tempo forte e suadente, ci hanno mostrato la bellezza materico-luminosa della loro equazione cinematografica. Entrambe storie di due amori impossibili, l’uno che dura un’intera vita tra Francia e Germania, l’altro un intero viaggio attraverso quel subcontinente che si chiama India. Rachel e Philippe, nella prima storia, Gabriel e Maya, nella seconda: ma cos’è l’amore se non quella impossibilità, quella negazione logica e ontologica che ci appare nella forma del maschile? Non perché si voglia idealizzare il femminile, dato che se guerra, violenza, prevaricazione, volontà di potenza, di affermazione – ideale o materiale – prevalgono nell’umano, non possono che prevalere nella sua interezza. Solo che il femminile rappresenta la via, la possibilità, anzi: la necessità opposta. Philippe proclama a Rachel il suo credo in Nietzsche, ma sarebbe davvero errato intravedere solo in lui l’anticristo, l’antiebraico, l’anti-femmineo. La radice è molto più profonda ed estesa.

 Rachel s’innamora perdutamente di Philippe, ma lui è impossibile, perché è soprattutto la classe sociale di lui, eletta a cultura, ideologia, prassi quotidiana a porsi quale, non solo anti-amore, ma anti-essere tout-court.  Rachel non lo vede, non vuole vederlo, lo nega, spera, s’illude, mente a sé stessa? O è la testimonianza disarmata ma tenace, umiliata ma mai arresa, ora negata ma mai annichilita di quella necessità opposta? Due generazioni, Rachel e sua figlia Chantal trascorreranno dolorosamente questo amore impossibile, per arrivare a una lucida, affilata comprensione dei loro fatti storici. Eppure – come afferma alla fine la stessa Chantal – anche il dolore è destinato a dissolversi, insieme alla negazione di quel maschile paterno impossibile che siauto-nega nel collasso della propria follia. Un racconto dall’ampio respiro narrativo, in cui destino e quotidianità femminile s’intrecciano oltre la percezione del nostro orizzonte temporale.

In Maya, Gabriel è un reporter francese rapito in Siria dai jihadisti, insieme ad altri due giornalisti. Lui e il suo collega francese sono liberati, dietro il pagamento di un riscatto. Il terzo, di origine statunitense, rimane nelle mani dei sequestratori. Gabriel decide di andare da solo in India per cercare di riprendersi. Lì lui ha trascorso l’infanzia con sua madre e suo padre, diplomatico di carriera. Là è anche proprietario della vecchia casa paterna con giardino. A Mumbai vive ancora sua madre, che aveva però abbandonato marito e figlio per un altro uomo. Ora dirige una ONG di assistenza ai bambini poveri. Gabriel ha in India un padrino, Monty. È un indiano proprietario di un resort alberghiero immerso nella natura – che vive con la sua attuale moglie europea Sigrid. Dopo tutti gli anni in giro per le guerre del mondo, ora Gabriel fa la conoscenza anche di Maya, la figlia di Monty. Il padre l’ha già iscritta a una prestigiosa università australiana. Una serie di circostanze portano Maya e Gabriel a viaggiare da soli insieme in India. Un viaggio prima del ritorno di lui alla professione di reporter, e della partenza di lei per l’Australia.

L’India fotografata da Mia Hansen-Løve in questo viaggio è già l’itinerario suadente, seducente della necessità apposta, dell’amore possibile contro quello impossibile. Maya sembra il volto stesso, puro, incontaminato di questa necessità d’amore. La speculazione edilizia, turistica, minacciano però sempre più prepotentemente la natura e lo stesso albergo di Monty. Le fiamme della guerra, dello slancio umano alla prevaricazione infernale si presentano sotto altri aspetti anche dentro il paradiso di una dea ragazza indiana. E il volto di Maya non è allora il velo di Maya, quello che il maestro di Nietzsche, Schopenhauer, diceva essere il velo dell’inganno, ossia quello che non ci fa vedere in faccia la nuda realtà? E l’uomo deve allora testimoniare la cruda realtà della guerra o la necessità forse illusoria dell’amore? Quello della potenza dirompente e devastatrice della dea Kali o quella di Shakti, ossia della polarità femminile di Shiva? Reporter di impossibilità, d’odio bellico in Medioriente o inviato di necessità, di tenacia amorosa in Oriente? Anche in questo salto tra una tenebra fissa e un fioco chiarore baluginante si misura il lancinante bisogno di una luminosa materia filmica al femminile.