Tracey Emin è tornata: non c’è arte dove c’è pudore

Tracey Emin, l’ex cattiva ragazza dell’arte britannica – quella del famoso My Bed, il letto sfatto con preservativi e altri resti di una notte brava, diventato un classico esposto alla Tate, controlla i suoi dipinti appena installati alla galleria Lorcan O’Neill di Roma in Vicolo dei Catinari 3. Una mostra che si snoda tra disegno, pittura, scultura, videoarte, che è iniziata il 21 settembre e che si protrarrà fino al 23 novembre.
Il titolo in questo caso è Tracey Emin – “Leaving”.
L’artista di Croydon, per questa mostra, ha lavorato oltre un anno su nuovi e potenti dipinti nei suoi studi a Londra e in Francia.
“Leaving” perché affronta la complessità dei cambiamenti significativi della vita: può essere interpretato come un cambiamento nella coscienza, un ritiro nell’intimità della riflessione e della memoria; può indicare un passaggio da un luogo ad un altro, l’intensità di dire addio e l’emozionante sensazione di un nuovo inizio.
Le opere riflettono il flusso di energie ed emozioni che si rincorrono nel corso della vita di ognuno. Emin ha lavorato su una vasta gamma di media, dalla pittura, scultura, disegno, neon, film, fotografia e ricamo. Il suo lavoro ha un’immediatezza e spesso una franchezza sessuale che inserisce la sua arte all’interno della tradizione di artisti che hanno posto il corpo umano al centro della loro attività.
L’arte è per la gente, è sempre stato il suo credo.
Secondo l’eclettica artista, non ci può essere arte dove c’è pudore.
Ogni angolo sporco della propria anima, della propria vita quotidiana, va scavato, esposto, massacrato. Niente può essere trattenuto, nascosto, sottratto principalmente a se stessi tanto che persino ogni ombra deve essere a disposizione dei suoi racconti. Perché ogni forma di arte è un racconto ed ogni racconto ci trasmette emozioni, l’importante è che ci induca ad innescare una riflessione intensa e ad analizzarla.
Mettersi a nudo, questo scoperchiarsi non è un processo a termine ma infinito: si può sempre scavare più a fondo, spostare altre viscere, aprire altre vene, spalancare un altro cuore che non pensavi si nascondesse nel cervello.
Ad esempio nella sua ultima mostra a Londra, nella White Cube Gallery, le sue opere hanno occupato i seimila metri quadri della galleria londinese.
A Fortnight of Tears fu il titolo che annunciava lo svolgimento: due settimane di lacrime per una mostra che si svolgeva in tre atti: l’insonnia, la morte della madre e la memoria dei due aborti avuti negli anni novanta.
Tre stazioni artistiche in cui Emin è tornata a confessarsi con spudoratezza anarchica alla gente.
«L’arte ha bisogno di storie», aveva scritto Francesco Bonami recensendo quella mostra kolossal. Di storie che sopravanzino, con la loro forza e capacità di intaccare l’immaginario, l’oggetto artistico singolo, messo in discussione nel suo statuto dai tanti terremoti subiti nell’ultimo secolo.
La strategia di Tracy Emin nelle sue esposizioni è quella di mostrare la sua storia privata trasformata in confessione pubblica, senza veli e senza vergogne. È lei, con il suo corpo, con i suoi sentimenti feriti, con la spudoratezza che la caratterizza a essere il soggetto esclusivo di questa narrazione.
Lo era stato anche in occasione della tenda presentata a Sensation, all’interno della quale aveva scritto tutti i nomi delle persone con cui aveva dormito nella sua vita. C’era la nonna, c’erano gli amanti, il fratello, le amiche. E c’erano anche i due bambini che non ebbe mai, in quanto aveva scelto di abortire. Ebbene, il contenuto evocato da quella tenda continua a essere il tema, o meglio l’ossessione, della sua avventura artistica.
È un approccio che spiega l’importanza che le scritte assumono nella produzione artistica di Tracy Emin. Scritte spesso presentate come installazioni con neon o dipinte sulla tela, in modo volutamente rozzo. Sono messaggi che a volte tirano la morale delle storie, senza temere la banalità, nella convinzione che l’arte, al di là della spregiudicatezza dei contenuti e dei linguaggi usati, abbia sempre, come destinatari le persone normali.
Viene da pensare che la scommessa di Tracey Emin sia di raggiungere attraverso l’arte ciò che nella sua biografia ha voluto negarsi. In questo senso cerca ansiosamente nel pubblico, nella «gente», una relazione affettiva, un’interlocuzione senza schermi, capace di ribaltare quel concentrato di negatività in un’imprevista trama di vita.

di Stefania Lastoria

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