Hajar Raissouni, reporter marocchina condannata a un anno per aborto clandestino e atti contro la morale pubblica
Mi chiamo Hajar Raissouni, ho ventotto anni e lavoro per un quotidiano in lingua araba dal titolo Akhbar Al-Yaoum. Vi chiederete perché sto scrivendo di me, a voi. Lo faccio perché nel mondo si sappia, perché solo la conoscenza e la consapevolezza possono cambiare ciò che succede in troppe parti del pianeta. Chi non ha interesse a conoscere la mia storia che accomuna quella di tante altre donne, allora volti pure pagina. Pagina di giornale e pagina di vita. Ma se tra tutti voi ci fosse qualcuno interessato a sapere cosa rischio per le mie battaglie di libertà, allora rimanga a leggere. Rimanga a farmi compagnia. In carcere, in quel posto che per ora è la mia dimora.
Sono stata condannata a un anno di prigione senza condizionale con l’accusa di aborto clandestino e atti contro la morale pubblica. Da noi, l’articolo 490 del codice penale marocchino, punisce “i rapporti fuori dal matrimonio”. Peccato che la verità sia un’altra e che con queste illazioni che hanno alla base motivazioni politiche, vogliano farmi scontare la mia vicinanza agli ambienti islamisti più conservatori che si oppongono alla volontà di ammodernamento del paese del re Mohammed VI, soprattutto dal punto di vista delle libertà individuali.
Sono in carcere dal 31 agosto, insieme al mio compagno, al ginecologo e all’infermiere, rei di avermi assistita. La verità è che la relazione con il mio compagno Refaat Alamin, 40 anni, professore universitario originario del Sudan, non è mai stata una relazione nascosta. Noi ci siamo sposati legalmente in Sudan ma sembra che i documenti del mio matrimonio non sarebbero ancora stati registrati in Marocco, solo perché l’ambasciata sudanese non avrebbe ancora formalizzato l’atto.
Io non posso vedervi e non posso sapere quante persone mi stanno leggendo, quanti di voi possano essere interessati non a me ma alle tante storie come la mia. Io però sento la vicinanza e la solidarietà di molti.
Perché alla fine la mia storia è stata raccontata dai giornali internazionali e ha mobilitato una variegata rete di persone: islamisti, associazioni per i diritti umani e movimenti femministi. Perché io sono una giornalista certo ma sono anche una donna vittima di leggi retrograde e misogine.
Ho saputo, non senza commozione, lo ammetto, che L’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto la mia immediata liberazione per violazione delle libertà personali e che ben centocinquanta giornalisti hanno poi firmato una petizione di protesta.
Sapete, il codice penale del Marocco consente di interrompere la gravidanza solamente quando la vita della donna è in pericolo. In ogni altro caso punisce l’aborto con il carcere da sei mesi a due anni, e chiunque lo abbia reso possibile con ben cinque anni di reclusione.
Sono ovviamente perseguiti penalmente anche l’adulterio e l’omosessualità.
Io mi rendo conto che per voi occidentali tutto ciò può sembrare incredibile, eppure è una realtà, ora anche la mia realtà.
Nel 2018, dicono i dati ufficiali, in Marocco sono state accusate 14.503 persone per dissolutezza, 3.048 per adulterio, 170 per omosessualità e 73 per aborto clandestino. Secondo le associazioni femministe, ogni giorno nel paese vengono praticati tra i 600 e gli 800 aborti clandestini.
Pensateci. Riflettete su questi numeri che fanno impressione, che mettono i brividi, che annientano la dignità personale, che calpestano le persone passeggiando poi sulle loro macerie.
Ebbene. Io ci tenevo solo a raccontarvi la mia personale storia. Vera. Una storia che ad oggi potrebbe aprire la strada ad una discussione sulla depenalizzazione dell’aborto. Perché vedete, il progetto di legge che la prevede, è bloccato da anni in parlamento. Così io sono qui, nel buio di questa prigione, senza luce se non quella negli occhi, con i pensieri in testa, mille domande senza risposta e la voglia di divulgare la verità. La rabbia di sapere che l’unico strumento che ho per allertare tutta l’opinione pubblica internazionale siete voi. Mi siete rimasti solo voi.
E allora, ancora una volta io vi dico che chi non ha interesse a conoscere la mia storia, volti pure pagina. Pagina di giornale e pagina di vita. Ma se tra tutti voi ci fosse qualcuno interessato a sapere cosa rischio per le mie battaglie di libertà, allora rimanga a leggermi, rimanga a riflettere, mi tenga virtualmente la mano, mi doni una parola di conforto, mi aiuti a comunicare al mondo ciò che avviene in Marocco. Non è molto per voi. E’ tantissimo per me. Quando un giorno la gente capirà che il problema del singolo non può essere considerato se non come il problema di tutti, nessuno di noi, neanche voi, potrete salvarvi mai. Anche voi, insieme a me, vi ritroverete vostro malgrado, nel grande carcere del “mondo”. E allora forse sarà troppo tardi per tutti urlare il nostro comune diritto di libertà.
di Stefania Lastoria