La morte rende uguali
Siamo usciti dal ventre di Roma emergendo dalla stazione della Metro e ci appare subito nel suo splendore bianco la piramide di Roma.
È la piramide Cestia, un sepolcro di stile egizio costruita a Roma tra il 18 e il 12 a.C. per volontà di Gaio Cestio un pretore romano. Il monumento funebre, a ridosso delle mura di porta San Paolo affaccia su piazzale Ostiense. Luogo che ci ricorda la Roma “città aperta”che fu ostaggio dei nazifascisti nei giorni convulsi dopo l’8 settembre del ‘43, qui avvennero i primi scontri tra soldati tedeschi e resistenza romana.
Ogni città ha una sua vita, un suo ritmo, un suo respiro. Come una persona una città nasce, cresce, invecchia e scompare. Ha un suo ciclo ordinato dalla storia. Una città vive molte vite che la riconducono solo è sempre ad una sola, quella fatta dall’esistenza dei suoi abitanti, dai ricordi, dalle sue paure dai giorni felici ai giorni più dolorosi. Roma è ovunque, Roma è di tutti e di nessuno.
Usciti dal ventre di Roma annusiamo l’odore della città eterna. Roma è la città della fede e della cristianità. Tutto e sacro e tutto è consacrato, anche i monumenti pagani dell’antica Roma sono diventati cristiani, è bastato mettere una croce su di essi.
Ma la piramide Cestia no, non ha nessun simbolo cristiano, rimane quello che era, una tomba. Forse non è un caso che dietro quella tomba non benedetta alla religione cristiana si trovi un lembo di terra non consacrata con tante altre tombe che custodiscono le spoglie mortali di chi era ritenuto non cattolico.
La chiesa vietava di seppellire in terre cristiane chi apparteneva ad altre religioni tra cui i protestanti, gli ebrei, gli ortodossi e persone suicide. In questo fazzoletto di terra all’ombra della piramide Cestia, che sembra fare quasi da portale tra la vita terrena e quella dello spirito, riposano le anime di quei defunti.
Appena superato piazzale Ostiense, i rumori delle auto degli autobus e dei tram si attutiscono mentre prendiamo la via che porta all’ingresso del cimitero. Entriamo e ci accorgiamo subito che acattolico non vuol dire ateo. Ci si rende conto di quanta spiritualità c’è. Chi vi è sepolto ha legato il proprio destino alla città di Roma e che in qualche modo ha amato e nella sua terra ha trovato la pace eterna.
L’odore dei cipressi, che come lunghi pennelli si rivolgono al cielo, ci ricorda che il luogo è spirituale e che il silenzio è il rumore che regna tra i viottoli. Gli occhi scorrono sulle tombe leggendo le epigrafi, le orecchie colgono il cinguettio degli uccelli e il verso stridulo di una colonia di pappagalli che sembra aver trovato qui il suo abitat, e il naso percepisce il penetrante odore dei fiori che adornano le tombe.
Come scriveva Harry James “Una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba”.
Poter conoscere la storia di ogni defunto è una cosa che affascina e che richiede tempo. Ricostruire la storia di chi fu è un continuo insegnamento.
Abbiamo il momento solo per due tombe, la prima che visitiamo è quella di Andrea Camilleri. Andrea che è stato uno scrittore, sceneggiatore, regista, drammaturgo e insegnante italiano. Ha insegnato regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Ma lo ricordiamo tutto come il padre del commissario Montalbano. Una tomba semplice, quello che ci colpisce e una piantina di peperoncino in mezzo a fiori di campo che coprono la sepoltura. Pensiamo a un omaggio alla sua Sicilia ma ci piace pensare che al maestro piaceva mangiare piccante.
A lato sinistro della lapide notiamo una arbusto di ulivo piantato in un vaso. L’ulivo è il simbolo della rigenerazione e della pace ma non ci sfugge la presenza di due vasetti in vetro posti ai piedi della pianta. Uno contiene capperi e l’altro sembra contenere marmellata, forse un omaggio alla sua Sicilia. A lato destro della lapide c’è una scatola di lamiera le cui quattro facce sono in vetro, essa contiene pacchetti vuoti di sigarette e alcuni bigliettini. Le sigarette, le Muratti, erano il grande vizio dello scrittore.
La seconda tomba che visitiamo è quella di Antonio Gramsci.
Gramsci fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e ne fu segretario dal 1924 al 1927. Nel 1924 venne eletto deputato al parlamento. Nel 1926 il regime fascista lo recluse nel carcere di Turi nell’altopiano della Murgia, lo stesso dove venne recluso anche Sandro Pertini. Gramsci era considerato un grande pensatore. E proprio il carcere gli permise di scrivere “Quaderni del carcere” appunti raccolti in trentatré quaderni. Riflessioni in completa solitudine, diedero vita a scritti che ottennero un enorme impatto nel mondo della politica, della cultura, della filosofia e delle altre scienze sociali dell’Italia del Dopoguerra, permettendo al Partito Comunista di avviare un’egemonia culturale incontrastata nel mondo intellettuale. La sua tomba è poco distante da quella di Camilleri. È semplice, la lapide sembra più un cippo su cui è riportato solo il cognome con i luoghi e le date di nascita e morte, mentre ai piedi di essa c’è un piccolo parallelepipedo di marmo contenenti le sue ceneri con scritto il suo nome e cognome. Ci viene in mente una sua frase: “Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere.”
Usciamo da quel luogo in religioso silenzio. Voltandoci un’ultima volta ci congediamo da quel lembo di terra, nel cuore di testaccio, le cui lapidi più che un cimitero rappresentano libri da leggere attraverso i nomi incisi su di esse.
di Giuliana Sforza e Eligio Scatolini