Saharawi, ora tocca a Biden
Il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, annunciata dal presidente uscente Donald Trump in cambio della normalizzazione delle relazioni del Regno con lo stato di Israele, è uno schiaffo in faccia al popolo Sahrawi che da trent’anni vive sotto occupazione militare.
La decisione, rappresenta anche uno strappo nella politica estera americana che dal 1991, almeno ufficialmente, sostiene il referendum popolare che dovrebbe decidere sull’autodeterminazione e sullo status finale del Sahara occidentale.
Uno scambio, quello tra l’amministrazione Usa e il governo di Mohammed VI, peraltro inutile per gli interessi americani. Infatti, come sostiene un attento conoscitore della situazione, il senatore repubblicano e presidente della Commissione per i servizi armati James Inhofe, non è un mistero per nessuno che già dagli anni novanta Israele e Marocco intrattengono relazioni, seppur ufficiose, molto calorose e Trump “avrebbe potuto concludere questo accordo senza scambiare i diritti di un popolo senza voce”.
Ma queste per Trump sono quisquilie. Com’è nel suo stile, prima di annunciare l’intesa non ha consultato né il Fronte Polisario, che dagli anni ’70 rappresenta il popolo saharawi, né i confinanti l’Algeria e Mauritania dove, nei campi profughi, sopravvivono i profughi saharawi.
Con questa scelta, l’Amministrazione uscente ha dimostrato, ancora una volta, la sua incapacità di valutazione di scenari complessi. Come accade a tutti i populisti, la volontà di ottenere, e presentare, una apparente vittoria conta assai più dei problemi reali. In questo caso, oltre all’autodeterminazione di un popolo, la stabilità dell’intero Maghreb.
James Inhofe, rieletto nel novembre scorso per un altro mandato di sei anni al Senato, è un sostenitore del referendum e considera quella di Trump un grave errore politico. È quindi prevedibile che da presidente del Comitato per i servizi armati investirà Joe Biden della questione.
Nell’area occorrerà ripartire dall’operazione di peace keeping autorizzata dalle Nazioni Unite con la risoluzione numero 690 del 1991 e denominata, per l’appunto, Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara occidentale (MINURSO).
Operazione che doveva mettere fine al conflitto scoppiato nel 1975 dopo il crollo del dominio coloniale spagnolo e la concessione franchista (sollecitata dagli Usa, che temevano la nascita di uno stato saharawi indipendente e legato al blocco sovietico) di due terzi settentrionali del territorio al Marocco.
Una decisione che scatenò l’opposizione del fronte Polisario, portò alla nascita della Repubblica democratica del Sahara occidentale e alla reazione militare del Marocco.
A decenni di distanza dal cessate il fuoco il referendum non si è ancora tenuto, l’85% del territorio è sotto il controllo marocchino e la mossa di Trump rischia di far precipitare la situazione.
Eppure, oggi come allora, solo un referendum che affidi al popolo la scelta tra l’indipendenza o l’unificazione con il Marocco può condurre ad una vera stabilizzazione della regione.
A questo punto, quello che il Polisario deciderà di fare è nelle mani della nuova amministrazione statunitense. Se il presidente Biden tornerà allo spirito degli accordi di pace del 1991 uno spiraglio di speranza tornerà ad aprirsi per il popolo saharawi. In caso contrario l’eredità avvelenata di Trump porterà al popolo del deserto nuovi lutti e sofferenze.
di Enrico Ceci