Buoni e cattivi, il futuro del Terminillo
Al Terminillo ci sono cresciuto, avevo un anno quando i miei genitori mi portarono la prima volta e lì, a cinque imparai a sciare. Ai miei piedi due residuati bellici di legno con il quadratino in punta, adattati alla mia statura a colpi di seghetto, due cinghiette trattenute da piastrine di metallo come attacchi e scarponi di cuoio con lacci rossi. Mi sembrò di volare, l’ebbrezza della discesa, circondato da un ambiente fantastico e quelle domeniche al Terminillo mi trasformarono da slittinista a sciatore.
Dopo ogni discesa, risalivo sci in spalla per raggiungere la cima della collinetta che noi romani chiamiamo “gallinaro”, condivisa da sciatori maldestri, slittini, bob e buste di plastica, in un melting-pot colorato di giacche in similpelle, berretti con ponpon e pantaloni anni sessanta.
Cresciuto a pane e Gustavo Thoeni, non tardai molto a desiderare gli sci Gipron rossi, messi in bella mostra nelle vetrine di Iraci Sport a via Cola di Rienzo.
E Natale arrivò! Novemila lire, tanto costarono quei fiammanti sci con attacco a leva anteriore, con cui iniziai a fare sul serio. Sono passati cinquant’anni da quei fantastici giorni, e di neve sotto i miei sci ne è passata molta, ma il Terminillo continua a restare nel mio cuore come un posto speciale. In tutti questi anni la stazione è caduta nell’oblio, fin dalla fine degli anni ’80, quando il popolo degli sciatori, attratto dalle stazioni abruzzesi, più facili da raggiungere e con migliori impianti, iniziò a emigrare abbandonando la montagna di Roma. Lo sci di massa non fu più un affare del Terminillo, la cementificazione selvaggia degli anni del boom economico, rimase a testimonianza di un era passata, con i condomini al di fuori di ogni stile montano, a deturpare un territorio altrimenti spettacolare. Impianti di risalita abbandonati, per la loro inutilità o per le diatribe sulla loro gestione, piste troppo corte ed esposte a sud, cambiamento climatico con sempre meno neve e stagioni troppo corte, decretarono la fine di un’era.
Oggi, potrebbe essere l’inizio di un nuovo ciclo, fauna e flora, riconquistano spazio, gli orizzonti legati alla sola stazione si allargano fino alle pendici nord della montagna, l’esplorazione dei canali da salire con i ramponi e ridiscendere con gli sci accendono nuove emozioni che lambiscono i cuori. Salendo su questa vetta la mente può espandersi verso confini inimmaginabili, verticali, mistici.
In questi luoghi sono diventato consapevole che il cemento e gli impianti di risalita non sono l’unica via, l’altra, forse più faticosa ma lungimirante, é contemplativa, passa per un mondo incontaminato, dove bisogna essere disposti a qualche sacrificio, o tutto si consuma in un breve momento, come un fuoco d’artificio.
Nel lontano 2000, discussi animatamente contro i progetti nati dalla politica miope, legata allo scambio dei voti anziché al benessere delle comunità montane dei monti Reatini. Il progetto con fondi esteri della stazione, prevedeva lo scavalcamento del Terminillo da Pian de’ Valli alla Vallonina, con la realizzazione di nuove piste e l’abbattimento di vari ettari della antica faggeta in valle. Complice la poca neve caduta in quegli anni, il Resort, finì nel dimenticatoio. Fin quando la politica di destra andata al potere nella provincia e nel comune di Rieti, ritirò fuori l’idea di sviluppo rivista e corretta ma comunque anacronistica. Oggi mentre sto scrivendo, la regione Lazio approva il progetto “Terminillo stazione montana”, con la valutazione di incidenza ambientale (VINCA) e la valutazione di impatto ambientale (VIA) favorevoli, ma senza la firma del dirigente area Vinca. Le valutazioni non tengono in conto del cambio climatico che stiamo vivendo, nei prossimi anni, un aumento delle temperature tra i 2 e i 7 gradi innalzerà la quota minima delle nevicate, dai 1500 metri del 2006 ai 2000 metri, paralizzando di fatto tutte le stazioni invernali d’Europa con impianti sotto tale quota. La LAN, cioè la Linea di affidabilità della neve, stabilisce che per avere una normale stagione, si debba avere un minimo di 30 centimetri di manto, per almeno 100 giorni, altrimenti le attività andranno in perdita. Quali vantaggi a lungo termine, potranno avere gli imprenditori del Terminillo con un progetto di questo tipo? Probabilmente come già successo in altre aree, il progetto porterà benefici a chi costruirà gli impianti ma non a chi li utilizzerà. Purtroppo, le persone pensano al quotidiano, e non in prospettiva di lungo periodo, la politica di conseguenza persegue l’immediato perché ha bisogno di consenso. Ci potrebbe essere un ritorno economico a breve, ma si distruggerebbe un territorio che potrebbe invece portare un ritorno sul lungo periodo. Senza contare che il piano paesaggistico della stessa regione Lazio, prevede l’impossibilità di costruire nuovi impianti in aree di grande importanza faunistica come quella del Terminillo, con uno dei più antichi boschi di faggio del centro Italia.
In questi difficili giorni di covid, abbiamo assistito ad un assalto del Terminillo ad impianti chiusi, migliaia di famiglie in cerca di pace, serenità e natura, lo stesso clima che respiravamo cinquant’anni fa. Questo fa pensare che con uno sviluppo economico ecologico, basato sull’offerta di benessere, natura incontaminata e buona cucina, non si sentirebbe la mancanza di quegli impianti che, passato il momento di euforia iniziale, andrebbero di nuovo nel dimenticatoio lasciando cicatrici indelebili nel territorio.
In questi casi, dimentichiamo anche la responsabilità che abbiamo nei confronti delle future generazioni, a cui dovremmo consegnare un territorio intatto, di vitale importanza per il benessere di tutta l’umanità.
Quindi chi sono i buoni e chi i cattivi?
Da una parte le associazioni ambientalistiche, che vorrebbero uno sviluppo eco compatibile, che rispetti la natura e il territorio, con la catechizzazione delle giovani leve al rispetto dell’ambiente in cui viviamo e in cui vivranno; dall’altra, la politica e l’imprenditoria senza scrupoli, capace di pensare solamente ad un’economia a breve termine, senza alcuna lungimiranza e senza volontà di trovare alternative valide e durevoli.
Molte aziende in tutto il mondo stanno cambiando politica, diventando più green, perché le persone, sono più consapevoli e lo chiedono, ad esempio, non acquistando più i prodotti che contengono olio di palma. Le aziende che recepiranno questo cambio di rotta continueranno a lavorare, le altre verranno messe in disparte. Succederà lo stesso per queste cattedrali dell’inutilità? Di fatto, tutti noi potremmo influenzare le scelte fatte, anche in questi casi, dichiarando di non avere bisogno di altri impianti, ma di sentieri da percorrere con sci e ciaspole, ascoltando in silenzio il respiro del bosco, lo stesso bosco che vorrebbero abbattere.
di Roberto De Stefanis