La povertà della Colombia al centro delle proteste
Nell’ultimo anno 3,6 milioni di colombiani si sono ritrovati a vivere in condizione di povertà e 2,7 milioni in condizioni di povertà estrema. Oggi in Colombia più di 21 milioni di abitanti tirano avanti con meno di 331.688 pesos al mese (circa 88 dollari statunitensi) e 7,4 milioni con meno di 145.004 pesos (circa 39 dollari). Questi dati suggeriscono che nel paese si sono persi i progressi degli ultimi dieci anni nella lotta alla povertà.
Gli effetti della pandemia e delle misure di lockdown sono stati avvertiti soprattutto nelle grandi città.
Come si può facilmente intuire, le due categorie più colpite dalla crisi sono le donne e i giovani.
Secondo il direttore del Dipartimento amministrativo nazionale di statistica, “lo scarto tra i generi è aumentato durante la pandemia e questo significa che la povertà è più evidente in quei casi in cui le donne sono le capofamiglia”.
Tutto ciò spiega perché i giovani siano stati i protagonisti delle proteste sociali in Colombia, proteste che sono scoppiate in risposta alla riforma fiscale di aprile e che con il passare del tempo hanno inglobato altre rivendicazioni, come il rifiuto verso la riforma sanitaria del governo. Nelle rivolte pacifiche del 2019 i giovani si erano organizzati per attirare l’attenzione su una situazione che la pandemia ha contribuito a peggiorare. Vedevano non solo le loro opportunità di lavoro ridursi, ma anche la possibilità di ottenere un’istruzione superiore, considerando che le università pubbliche non avevano a disposizione abbastanza investimenti statali per ampliare la loro ricettività e studiare nelle università private era diventato troppo costoso. Poi è arrivata la pandemia, che oltre a chiudere il mercato del lavoro ai giovani, ha loro impedito di studiare vedendosi ulteriormente preclusa qualsiasi aspettativa verso un futuro migliore e dignitoso.
E’ facile comprendere perché le mobilitazioni più significative si siano verificate nei quartieri poveri delle grandi metropoli, luoghi in cui la situazione di partenza già ai limiti della sopportazione, è visibilmente peggiorata con l’avvento della pandemia.
Sono questi quegli angoli abbandonati delle città in cui operano gruppi illegali (dissidenti della guerriglia, organizzazioni del narcotraffico o altre forme di criminalità) che considerano i giovani come possibili reclute. Questi quartieri hanno accolto e continuano ad accogliere famiglie costrette ad abbandonare tutto quello che avevano per cercare protezione nell’anonimato delle grandi città, un anonimato però altamente rischioso.
Come se non bastasse, il rapporto quotidiano con la polizia è definito da una tensione costante, in cui gli abusi, gli arresti illegali e le minacce sono all’ordine del giorno. Quello che era un problema endemico non ha fatto che peggiorare durante la pandemia, perché alle forze dell’ordine sono stati dati nuovi poteri per far rispettare le misure di contenimento. Mentre i giovani e le loro famiglie potevano solo stare chiusi in casa a impoverirsi, senza possibilità di cambiare la situazione, per strada la polizia era sempre più potente e padrona dello spazio pubblico. E quando la situazione economica è diventata disperata, lo scontro tra questi ragazzi e la polizia è stato di una violenza senza precedenti nel passato recente della Colombia.
Sono moltissimi coloro che ritengono che l’unico modo per ottenere delle risposte concrete sia quello di protestare, di farsi sentire, di alzare la voce perché fondamentalmente non credono più nella democrazia rappresentativa.
La conseguenza più immediata è che si sono interrotti i canali di comunicazione tra il governo e i manifestanti. Tutti insistono che l’unica via d’uscita, dopo un mese di sciopero, sia negoziare. Ma identificare gli interlocutori non è semplice. Sebbene si sia formato un Comitato nazionale per lo sciopero, con cui il governo cerca di dialogare, i partecipanti alle proteste continuano a sostenere che i membri del comitato non li rappresentano. E non lo fanno per capriccio. Un esempio su tutti: l’unica giovane coinvolta è un’attivista del movimento studentesco universitario, e questo contrasta con il fatto che molti manifestanti stanno abbandonando la scuola, e non avranno la possibilità di entrare all’università.
Nel frattempo il governo criminalizza le proteste, dà un’enfasi spropositata ai danni materiali prodotti dallo sciopero, si presenta come una vittima di interessi elettorali e, servendosi di tutti questi stratagemmi, contribuisce solo a indebolire la voce di coloro che protestano. La debolezza dell’amministrazione guidata dal presidente Iván Duque, la cui riforma fiscale non ha avuto neanche il sostegno del suo stesso partito, è il principale ostacolo a una via d’uscita. Il presidente non ha il potere necessario a convocare un dialogo sulle misure da adottare e questo apre nuovi scenari di abusi della polizia e critiche della comunità internazionale per le violazioni dei diritti umani. Con una decisione senza precedenti, il governo nazionale ha inizialmente respinto la richiesta della Commissione interamericana dei diritti umani di compiere una visita in Colombia per valutare la situazione dei diritti umani nel paese dopo un mese di sciopero. Poi il governo ha accettato ma, ha precisato, “non in questo momento”.
Dal canto suo, la classe politica sembra caduta in un sonno profondo, causato dagli interessi elettorali in vista del voto previsto per il prossimo anno. La sinistra parlamentare, da sempre protagonista delle rivendicazioni sociali, è cauta perché vuole evitare di essere accusata del caos e degli abusi commessi dai manifestanti. La destra resta in agguato perché sa che una protesta che degenera e che si logora gli offre l’opportunità di rispolverare i suoi proclami contro la sinistra d’ispirazione “castrochavista” e a favore del pugno di ferro. Il centro, invece, sembra sul punto di disintegrarsi.
Le possibili vie d’uscita sembrano remote e la leadership politica colombiana è agli occhi di tutti, in declino, ormai senza idee, prospettive e coraggio per auspicare un vero cambiamento.
Si respira ovunque aria di resa, di molte battaglie perse con la speranza però, soprattutto nei giovani, di ribellarsi a questa realtà inaccettabile e intollerabile.
Tutti dunque puntano sulla rabbia e la ribellione giovanile, sia nel paese che nella comunità internazionale.
di Stefania Lastoria