Mousse Balde, perdonaci fratello

“Non un nome, non un volto, ci hanno provato per giorni a farti scomparire dalle cronache della realtà…” inizia così il messaggio degli attivisti del centro sociale di Imperia che salutano Moussa Balde, il ragazzo suicida nel famigerato CPR di Corso Brunelleschi di Torino, luogo di detenzione e stoccaggio per “corpi a perdere”, le vite di scarto di cui parla Batman. Il luogo del non luogo a procedere, dove tutto è ammesso, dove tutto è legale, dove tutto è disumano, violento e reso accettabile. Il luogo dove le vite di scarto non esistono, non hanno diritti. Il luogo dove sei un fantasma e cancellano le tue speranze.

Moussa Balde, aveva 23 anni, veniva dalla Guinea, tra poche settimane avrebbe fatto il compleanno. La sua morte pesa come un macigno, scrive Marco Revelli, docente di Scienze Politiche all’università del Piemonte Orientale, perché era una vittima, il giovane senza nome, appunto, di cui le cronache si erano occupate quando il 9 maggio scorso era stato aggredito e massacrato di botte da tre energumeni a Ventimiglia, per il solito fatto che era lì, sulla strada, e invece è stato trattato da colpevole, imprigionato in un vero e proprio lager sotto la minaccia dell’espulsione. Segregato quando ancora le ferite del corpo e dell’anima non si erano rimarginate, abbandonato alla propria disperazione, offerto al sacrificio da una società che ha perduto se stessa e per questo non sa più salvare nessuno. Moussa era una persona, ma è stato trattato come un oggetto, senza anima e senza diritto alcuno. C’è nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile per tutto il nostro mondo consumistico, egoista, prepotente, supponente e indecente. Per le autorità, funzionari di polizia, magistrati, secondini, che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa.

Per i guru della informazione, scrive ancora Revelli, che vedono, vedono tutto, ma girano la faccia dall’altra parte perché queste storie non “fanno notizia” e che hanno lasciato Moussa fluttuare nell’aria senza neppure restituirgli il nome. Per i capi di partito che speculano sulla persecuzione delle vite di scarto per qualche pugno di voti. Ma anche per tutti i cittadini delle città-limite come Ventimiglia, dove si convive col dolore del mondo con una sorta di anestesia, che rende mostruosi i normali, o i normali mostri. E anche per tutti gli smemorati, che, s’indignano per qualche ora ma poi ritornano alla routine quotidiana, perché il male è troppo grande e noi troppo pochi. Per i cattolici, che sono cattolici la domenica è non vogliono sentire il richiamo di Papa Francesco, che non vogliono essere fratelli di tutti.

Allora in questa Italia cattolica, delle tante, troppe manifestazioni e ricorrenze religiose, dimentichiamo Moussa e tutte le sorelle e fratelli di Moussa che di là dal mare, scappano dalla fame e dalle guerre per cercare la pace. La storia di Moussa si rimuove, si cancella dalle coscienze, come non fosse mai avvenuta. Ma Moussa, oltre ad un nome aveva una storia. Era arrivato in Italia nella primavera del 2017, aveva vissuto a Imperia dove aveva preso la licenza media presso la scuola Boine, aveva poi lavorato con una cooperativa, aveva trascorso un periodo in Francia ed era tornato in Italia dove l’aspettava la falce della morte della peggiore indifferenza. Un destino che lo ha cancellato, rimuovendone anche il nome. C’è una foto molto significativa di Moussa che indossa una maglietta bianca con la scritta rossa: Imperia antirazzista. Un monito per i Moussa a venire, e a noi il compito di non rimuoverlo, anzi di ripetere le parole del centro sociale Amici dellaTalpa: tu sei Moussa e non l’hai piegata la testa di fronte all’ingiustizia. Perdonaci fratello.

di Claudio Caldarelli e Eligio Scatolini

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