«Eleanor Roosevelt, una first lady per il mondo» di Rossella Rossini
Siamo all’inizio del ’900, negli Stati Uniti. La giovane patrizia newyorkese Eleanor Roosevelt sta facendo i primi passi nel lavoro sociale. Sono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti si rendono conto improvvisamente dei costi terribili dell’impetuoso sviluppo economico e dell’espansione territoriale degli ultimi decenni, gli anni dei muckrakers che scavano nel fango della corruzione e dello sfruttamento, del rinnovato vigore del movimento suffragista, della nascita delle prime organizzazioni per i diritti civili e del sindacalismo rivoluzionario. Eleanor Roosevelt non fa direttamente parte di tutte queste cose, ma è intelligente, sensibile e, soprattutto, curiosa. Si guarda intorno, avendo il dono di riuscire a vedere la stortura di realtà quotidiane che ad altri sembrano normali. In un grande magazzino, nota in quali condizioni lavorano le commesse: «Mi domandai: ma queste donne ce l’hanno uno sgabello per sedersi dietro al banco quando non servono i clienti, o devono stare tutto il giorno in piedi?». La capacità di vedere problemi dove altri vedono la normalità la sosterrà in tutto il corso di una lunga e ricchissima vita. Questo episodio, raccontato nella sua autobiografia, è ripreso, quasi come una vera e propria storia di fondazione, nella dettagliata biografia che Rossella Rossini opportunamente dedica a questa donna straordinaria (Eleanor Roosevelt. Una first lady per il mondo, presentazione di Furio Colombo, Edizioni di Storia e Letteratura).
Nata nel 1884, vissuta fino a metà anni ’60, Eleanor Roosevelt attraversa da protagonistail secolo breve – due guerre mondiali, la grande Depressione, il diritto di voto alle donne, i massacri e i linciaggi razzisti e i movimenti per i diritti civili, la nascita delle Nazioni Unite, dal primo Roosevelt fino a Kennedy e Johnson, sempre impegnata, sempre curiosa, sempre capace di pensare con la propria testa.
Il titolo del libro, first lady, rinvia ovviamente agli anni che trascorse alla Casa Bianca, moglie di Franklin Delano Roosevelt, dal giorno della sua elezione a quello della sua morte improvvisa.
Eleanor Roosevelt sarebbe stata una figura importante comunque, ma è certo che il ruolo accanto al presidente la collocò vicino al luogo delle decisioni e le diede un’altra visibilità.
Opportunamente, Rossella Rossini apre e chiude il libro collocandola nella dinastia delle first ladies americane, da Abigail Adams (sempre ricordata in tutte le storie delle donne, per la famosa – e inascoltata – lettera che scrisse al marito Henry Adams, impegnato nella redazione della Costituzione: «ricordatevi delle signore…») fino a Hillary Clinton e Michelle Obama. È uno strano ruolo quello della moglie del presidente, un ruolo non elettivo e non istituzionale, conseguenza della dimensione semi-monarchica e familista della presidenza americana ma assunto e svolto con intelligenza e responsabilità da tante di loro, luogo di quella influence e del soft power – della persuasione in cui il proto femminismo ottocentesco collocava il potere delle donne, e che ha ancora poche alternative in un sistema istituzionale in cui solo adesso emergono figure femminili dotate di un potere proprio.
Va detto che Eleanor Roosevelt non è mai stata la «grande donna» dietro il «grande uomo». Su moltissime questioni – per esempio, come racconta Rossini, sulle questioni dei diritti civili, della legge contro il linciaggio che gli Stati Uniti non sono mai riusciti a votare (come per il nostro ius soli, c’erano sempre altre priorità, non ci si poteva permettere di perdere voti…) – si distinse anche pubblicamente da suo marito.
L’autrice suggerisce che, in qualche modo, fosse in atto «un gioco delle parti» in cui «Eleanor portava avanti le battaglie che a lei stavano a cuore ma che a lui erano precluse, rappresentando all’opinione pubblica l’ala più radicale di un’amministrazione progressista, ma vincolata nel suo agire da condizionamenti del quadro politico istituzionale». Può darsi; ma Eleanor Roosevelt era perfettamente capace di agire, pensare e parlare per conto proprio; e lo mostrò al mondo intero (di qui l’appellativo di first lady «per il mondo» di cui la gratificò Henry Truman) come presidente della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Sarà lei, rappresentante degli Stati Uniti all’Onu, insieme con la delegata indiana Hansa Mehta, a dare forma alla Dichiarazione universale dei diritti umani: non ci siamo molto resi conto di come questo documento fondamentale sia soprattutto opera di due donne. È a loro che si deve se nella Dichiarazione la frase «tutti gli uomini sono creati uguali» ricalcata sulla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, è sostituita dall’inclusivo «tutti gli esseri umani nascono uguali». Rossella Rossini conclude, in sintesi, sottolineando il suo «straordinario contributo alla promozione dei diritti politici e civili delle donne, degli afroamericani e di altre minoranze etniche e religiose, all’affermazione e alla crescita dei movimenti pacifisti e internazionalisti, così come all’avanzamento dei diritti dei lavoratori e alla tutela delle fasce più disagiate ed emarginate della popolazione».
Tutto ciò ne fa senza dubbio «una delle maggiori rappresentanti del pensiero e del movimento progressista del Novecento, negli Stati Uniti e non solo». Figura cruciale della storia politica del ’900, Eleanor Roosevelt è anche una figura di transizione nella storia delle donne.
Come scrive Rossini, ha sempre agito e parlato in quanto donna. Si è formata durante la loro lotta per il diritto di voto, ma non ha fatto in tempo a vivere le rivendicazioni della generazione a cavallo degli anni ’70. Fatica molto, dopo essersi espressa anche negativamente, a sostenere lo Equal Rights Amendment, la proposta (mai realizzata) di equiparare – per via costituzionale – dei diritti fra uomini e donne. Non è una pioniera del suffragismo come Susan B. Anthony o Ida B. Wells; non è una militante come accadde alla generazione di Gloria Steinem o Alice Walker; non è arrivata a vivere la rivoluzione del «personale è politico» e la politica della differenza di genere. Forse per questo il suo nome non ha lo spazio che probabilmente meriterebbe anche in una storia delle donne a cui, comunque, appartiene di diritto.
di Stefania Lastoria