L’alter ego di se stesso
“Quando vivendo non mi vedo…” dice Vitangelo Muscarda parlando con lo specchio, è la frase che più di tutte racchiude il significato profondo di “Uno, nessuno e centomila” l’ultima opera di Pirandello, magistralmente messa in scena al teatro Quirino di Roma, dal regista Antonello Capodici.
L’intuizione pirandelliana diviene misticismo cosmico.Chiarimento filosofico dell’essere e della esistenza di ognuno che per conoscerci o conoscersi, ci devono fissare in una forma, mai uguale ad un’altra è mai simile ad un’altra. Anche quando pensavamo di essere “uno solo per tutti” ad un tratto ci accorgiamo che siamo centomila. Ma dov’è la verità?
Il sipario si apre con un sottofondo di fisarmonica, vagamente francese, accattivante, che predispone il pubblico ad uno spettacolo che ben si adatta alla nostra epoca. L’immagine di noi viene, distorta da chi ci osserva e dalle persone che vivono accanto ad essi e ci pone di fronte un tema che richiede una riflessione profonda, analitica, sulla visione che ognuno ha di se stesso e l’idea che invece hanno gli altri, che non è qualcosa di fisso ma in costante mutamento.
Dharma, la mia amica, mi sussurra, che “due accenti circonflessi” sono molto di più di due ciglia tagliate male. Rappresentano l’incapacità di capire il verso in cui scorre la vita, ma anche, dice Dharma, l’impossibilità di essere se stessi senza essere le centomila immagini che gli altri hanno di noi.
Pippo Pattavina, un Vitangelo accorato, calzato talmente bene nel suo personaggio da esserne incapace di uscirne, spalleggiato da una bravissima Marianella Bargilli che non solo gli tiene testa come moglie, ma lo esalta ancora di più come “mancata amante”. Tengono il pubblico con il fiato sospeso, dall’inizio alla fine. Il religioso silenzio, indice di un gradimento sopra le righe, tutto meritato dal gruppo di attori, solo cinque, con Rosario Minardi, Mario Opinato e Gianpaolo Romania.
Un piccolo difetto, fatto notare dalla moglie a Vitangelo, all’inizio della rappresentazione, scatena una serie di riflessioni, analisi e ribaltamenti della e sulla quotidianità. Da questo momento, il personaggio principale si rende conto di essere per gli altri diverso da come è per se stesso. Inizia così una profonda crisi di identità e un travagliato percorso alla ricerca di se stesso. Un se stesso che per trovalo, mi suggerisce Dharma, è come un po’ morire: per conoscersi veramente bisogna morire per poi rinascere. Ogni attimo morire. Ogni attimo rinascere.
“Nessun nome, nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri, del nome di oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi e il concetto di ogni cosa posta fuori noi, e senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca e definita; ebbene, questo portai tra gli uomini, ciascuno incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quell’immagine con cui apparvi, e la lasci in l’ace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita…”.
Tornare natura. La verità è nella natura. In una natura non intaccata dal pensiero, sussurro a Dharma, tenendogli la mano. La posizione è quindi romantica. Significa gettarsi nel mare delle cose, tuffarsi con amore, senza più coscienza, nel tumulto fluente e vario della natura, cioè non più fede nella ragione, non più rinchiudere l’anima nella forma, ma lasciarla fluire nell’attimo stesso della vita, che muore per poi rinascere.
Claudio Caldarelli