Flat tax all’italiana

Con la legge delega sulla riforma del Fisco, recentemente approvata dal Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 14 agosto, il Governo si propone di ridurre gradualmente il numero delle aliquote IRPEF dalle quattro attuali a tre, poi a due, per giungere infine all’agognata meta di un’aliquota unica per tutti i redditi: la cosiddetta flat tax.

Poiché, d’altra parte, la nostra Costituzione impone, all’art. 53, che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività, questa aliquota unica sarà accompagnata da un sistema di detrazioni/deduzioni, decrescenti all’aumentare del reddito imponibile, tale da garantire il rispetto dei suddetti criteri.

Al momento, ovviamente, conosciamo soltanto i criteri direttivi della riforma, che per quanto riguarda l’IRPEF appaiono in buona parte condivisibili; sapremo come sarà concretamente attuata soltanto dopo l’emanazione, nel termine fissato di due anni, dei decreti legislativi.

Nel frattempo, tuttavia, mi sono chiesto quali siano le ragioni che hanno portato alla scelta di pervenire a un’aliquota unica, a prima vista contraddittoria del principio costituzionale di progressività, peraltro ben evidenziato tra i principi generali della legge delega (art. 5, comma 1). In base alle dichiarazioni rilasciate da autorevoli esponenti della maggioranza di Governo, mi sembra di capire che tali ragioni si possano ricondurre alle tre seguenti.

La prima è che con la flat tax si semplifica la vita dei contribuenti. Ma in che modo? Forse perché consente di calcolare l’imposta dovuta con una sola moltiplicazione, laddove con il complesso sistema attuale occorre fare ben quattro moltiplicazioni, oltre a varie somme e sottrazioni. Ora, anche senza considerare che anche con la flat tax si richiederanno calcoli aggiuntivi per le detrazioni/deduzioni che saranno introdotte per correggerne gli effetti, non mi sembra che poche semplicissime operazioni aritmetiche (che vengono eseguite automaticamente da un banale programma di calcolo) possano essere considerate una complicazione per alcuno. La normativa fiscale, come è noto, è estremamente complicata per ben altri motivi, non certo per il calcolo dell’imposta.

La seconda ragione è l’intendimento di ridurre il carico fiscale, ritenuto troppo elevato. Nemmeno questo argomento mi sembra convincente, poiché nulla vieta di abbassare le aliquote quanto si vuole (o piuttosto quanto si può, compatibilmente con l’equilibrio dei conti pubblici e con il mantenimento di un livello accettabile di welfare) anche con il sistema oggi vigente. Ritengo anzi che una pluralità di aliquote consenta una migliore calibrazione della riduzione in funzione dei diversi livelli di reddito. Inoltre, non vedo alcun vantaggio nel ridurre il numero delle aliquote: alle quattro attuali, anzi, potrebbero aggiungersene altre in modo da attenuare gli scalini tra i diversi scaglioni.

Il terzo e – probabilmente – il vero motivo ispiratore della flat tax risiede nell’idea (legittima, anche se non la condivido affatto) che la progressività non sia cosa giusta in sé e nemmeno opportuna, in quanto costituisce un disincentivo all’iniziativa imprenditoriale, all’impegno nel lavoro e, in definitiva, allo sviluppo dell’economia, nonché un incentivo all’evasione. Questo argomento però non dovrebbe valere nel nostro caso, in quanto la legge di riforma prevede esplicitamente, come prima detto, di conservare la progressività dell’imposizione (necessaria per evitare il rischio di incostituzionalità).

Non si vede quindi quale logica vi sia nel volere insieme la flat tax e la progressività: tanto varrebbe mantenere l’attuale sistema di aliquote differenziate per scaglioni.

Oltre tutto, non si sa ancora come sarà attuato in concreto il passaggio all’aliquota unica, ed in particolare come sarà disegnato il sistema di detrazioni/deduzioni che ne modulerà gli effetti al variare del reddito; non si può quindi escludere – almeno in teoria – che ne consegua una progressività addirittura più marcata di quella attuale, che inizia ad attenuarsi già al superamento della soglia di 50.000 euro (valore relativamente modesto) cui corrisponde la massima aliquota marginale.

In conclusione, viene il sospetto che questa cosiddetta “flat tax” sia soltanto un modo di buttar fumo negli occhi per far apparire realizzata la promessa elettorale, tanto sbandierata dai partiti oggi al Governo, di una consistente riduzione dell’imposta sui redditi. Per la gran parte degli elettori, infatti, il concetto di flat tax è associato ad un’aliquota molto bassa (non di rado abbiamo sentito proporre valori anche del 15%), obiettivo certamente arduo da raggiungere se non a prezzo di consistenti e dolorosi tagli alla spesa sociale, difficilmente immaginabili nel nostro Paese.

Adolfo Pirozzi