14 Cine-pillole di Primavera ’25
La conversazione. Alto livello d’espressione cinematografica e d’attualità in anni profeticamente arcaici. È la riproposizione-omaggio di un classico che diverse sale stanno dedicando alla recente scomparsa dell’attore due volte Premio Oscar Gene Hackman. È un film cult di Francis Ford Coppola, Palma d’Oro a Cannes 1974. Girato tra Il Padrino I e il Padrino II, non è per niente un’opera di ripiego, tanto per non starsene con le mani in mano nell’intervallo di due impegnative produzioni. No, è un vero film d’arte, che usa il genere thriller per seminare più a larga scala contenuti importanti. Harry Caul è il migliore intercettatore audio sul mercato di conversazioni telefoniche, in abitazioni, alberghi, o stradali. Gli audio sono accompagnati anche da copiosi scatti fotografici. Del contenuto delle registrazioni non gliene frega niente, gli interessa solo che siano tecnicamente il massimo, così da essere adeguatamente pagato. Ma un giorno qualcosa cambia. Si trova drammaticamente coinvolto, e non sa come uscirne fuori. Chi registra, chi manipola chi? Un tema quanto mai d’attualità con i nuovi sistemi digitali e con l’IA. È quello che senti acutamente quando vedi Hackman alle prese con quei vecchi tasti di registratori e nastri da svolgere e riavvolgere a ripetizioni. In quella ormai tecno-arcaicità, tutta la preveggenza sul senso futuro del mezzo secolo trascorso che stiamo ora vivendo. Durata 117 minuti.
La storia di Patrice e Michel. La traiettoria stessa della civiltà nel destino unico di due fratelli. Tratto dalla storia vera di due fratelli abbandonati dalla madre in un soggiorno estivo. Il responsabile del campo si impicca, e loro sentendosi responsabili fuggono nella foresta e vi restano per sette anni, non solo sopravvivendo a ogni avversità, ma rafforzandosi e imparando tutto proprio da esse. Sette anni che indistricabilmente stringono in un unico destino le loro due pur diverse vite. Patrice diventa medico, direttore di un ospedale, Michel un prestigioso architetto e realizzatore di mega progetti urbanistici. Dalla natura, dalla vita e basta, alla città, alla tecno-metropoli contemporanea. Nei due, però, resta dentro mai vinto il richiamo di quei loro sette drammatici anni forestieri: “I migliori della nostra vita”. Durata 105 minuti.
Micky17. Avversato dalla critica, non da me. Il regista sud-coreano Bong Joo-Ho ci porta in un altro dei suoi incredibili, scioccanti mondi, ma sempre autentici per attualità. 2054, masse di disperati sono costretti ad abbandonare la Terra. Li imbarca su una sua immane astronave un fallito della politica, ma proprio per questo deciso a un folle riscatto di sé stesso sul remoto pianeta Niflheym: ghiacciato, ma vergine, ossia ideale per lo stupro ambientale. Egli stesso è un disperato, con la differenza dai dannati che lo seguono è il destino di sottomissione e sfruttamento che aspetta questi. Tra essi, Mickey Barnes che sta scappando dalla morte sicura decretatagli da un micidiale usuraio, i cui sicari t’inseguono, ti rintracciano e ti massacrano fino alla fine del mondo. Fuori e lontano dalla Terra e da quello strozzino, però, la morte deve sottoscriverla per contratto. Le critiche: costato troppo, ritorno a Blade Runner clonazione e al mito dei gemelli, già visto. Ma già visto da chi? Non è che ragazzə di oggi devono conoscere tutta la storia del cinema. E soprattutto: i miti, da quello della caverna di Platone, sono tali proprio perché tornano. Per eternarsi, rinnovarsi di generazione in generazione, di opera in opera, di film in film. Durata 139 minuti.
Come se non ci fosse un domani. Un vero faccia a faccia, parola, azioni aperte degli attivisti di Ultima Generazione.Per capire davvero chi sono, oltre il muro del caos che a ogni manifestazione si scatena loro contro. Per la prima volta, infatti, possiamo assistere su uno schermo grande e non piccolo, come quello della Tv, con scene ampie e respiro giusto ciò che la macchina mass mediatica stritola in scaglie deformate di condanna e cronaca repressiva. Riprese, ragioni, azioni di lotta, difesa da sentenze giudiziarie espresse e mostrate da ragazzə di Ultima Generazione. E lo fanno, esponendosi coraggiosamente, proprio per essere giudicatə, senza nulla nascondere di sé, anche del proprio privato. Così che si possano condividere o meno i loro discorsi, atti e pensieri, ma sulla scorta di immagini e voci complete. Prodotto da Paolo e Ottavia Virzì e Marco Belardi.
Regia di Riccardo Cremona e Matteo Keffer. Durata 90 minuti.
Il Nibbio. Sorprendente anche per chi a suo tempo ha seguito la vicenda, figuriamoci per chi ne sa poco o niente. Siamo nel febbraio 2005. La giornalista del Il Manifesto, Giuliana Sgrena, viene rapita a Baghdad. L’alto dirigente del Sismi, Nicola Calipari, è incaricato di risolvere l’affaire. film Cinematograficamente, narrativamente, politicamente funziona, eccome. E commuove anche. La ricostruzione dei dettagli, dei personaggi infimi o elevati, degli ambienti e dei set della security internazionale, è anche uno svelamento della personalità nitida, rigorosa di Calipari e del suo metodo nello scoprire tracce, piste, legami e nel condurre poi con sicurezza trattative complicate e rischiose. Pure il lato geo-politico della vicenda è incontrovertibilmente e senza equivoci delineato. Una delle migliori, se non addirittura la migliore delle interpretazioni di Claudio Santamaria. Tra l’altro l’attore dimostra anche di parlare un ottimo inglese. I suoi dialoghi, infatti, sono sì sottotitolati, ma non doppiati. Molto brava anche Sonia Bergamasco, nel ruolo di Giuliana Sgrena, seppure appaia meno in scena e, perlopiù, quasi sempre nella stanza sua prigionia. Non da meno Anna Ferzetti come Rosa Calipari, la moglie di Nicola. La sceneggiatura è firmata da Sandro Petraglia, Lorenzo Bagnatore, Davide Cosco. La regia è di Alessandro Tonda. Durata 109 minuti.
La città proibita. Cinesi e kung fu a Roma come non li avete mai visti. Il titolo si riferisce al nome di un immaginario ristorante cinese sotto i portici di Piazza Vittorio nel quartiere Esquilino, la China Town romana. Ristorante del boss Wang. Accanto uno di cucina capitolina, con Lorena alla cassa, il figlio Marcello in cucina, insieme a un aiutante bangla. E il padre Alfredo? Sparito. Si dice con una migna magna cinese. E chi lo dice? L’amico di famiglia Annibale, strozzino, trafficacciaro, sfruttatore di immigrati, odiatore dei cinesi, pistola sempre pronta e due gorilla, Cip e Ciop, dal pestaggio pronto cassa senza sconto. Finché non appare Mei. Suo padre era maestro d’arti marziali in Cina. Fin da bambine, lei e sua sorella, erano le sue allieve predilette. Mei appare nel ristorante di Wang e poi in quello di Lorena e Marcello in cerca della sorella Yun. Gli ingredienti sono questi. Gabriele Mainetti cerca di mixare al meglio città proibita e città eterna, cucina cinese. Come action movie, intrigo orientale e coattesco, ambientazioni, fotografia, luci e penombra ci riesce abbastanza. Tensione, attenzione, calamitazione sullo schermo sono assicurate. Marco Giallini stacca un personaggio sì già tutto nelle sue corde e dunque apparentemente scontato, ma con una personalità interiormente inquieta per quanto lurida, e un pallore da morto per quanto ringhiante. Convincente Enrico Borello, il figlio cuoco sempre smarrito a sé stesso fino al trauma che lo scuote verso il riscatto. Sabrina Ferilli poco interiormente tratteggiata. Yaki Liu, grazie alle sue doti di karateka e attoriali, il carattere di Mei lo esprime soprattutto nell’azione tenace e irrefrenabile. Luca Zingaretti appena un po’ di più che una buon partecipazione. Durata 138 minuti.
Dreams. Molto parlato e con letture continue di pagine diaristiche. Ma funziona. Johanne, una diciassettenne svedese, s’innamora a prima vista e disperatamente di una sua giovane insegnante. Scrive con sensibile intensità e buone capacità letterarie quello che prova. Riesce a frequentare la prof, ad andare a casa sua, a starle vicina. Intanto fa leggere a nonna e madre il diario. Tra lunghe discussioni se farne un caso letterario e difficoltà con l’insegnante, Johanna difende con acuta e toccante lucidità, poeticità, maturità, convinzione la certezza dei suoi sentimenti e di quello che nella prof riverbera. L’immagine ricorrente in tutto il film è quello di lunghe scale, per lo più metalliche, che sembrano abbondare nella zona di provincia in cui è ambientata la storia. Il valore dell’ascesa sentimentale, erotica, paradisiaca non è solo simbolico, e spinge anche chi guarda a entrare nella vibrazione pura della ragazza. Durata 110 minuti.
Il caso Belle Steiner. Un giallo freddo con calda suspence erotica finale. Tratto da George Simenon. In casa di un prof di matematica viene strangolata una ragazza amica di famiglia, ospite sua e di sua moglie. I sospetti convergono immediatamente su di lui. Ai numerosi interrogatori cui è sottoposto dalla polizia, e domande delle amicizie più strette, risponde in tono quasi indifferente e usando sempre il minimo delle parole. Lui studia e insegna soprattutto il calcolo delle probabilità, il quale spiega alle sue classi deriva dal – gioco. Così che sembra proprio una partita a poker sul filo del rasoio quella che sta giocando. Dal punto di vista del qualità del tessuto cinematografico non c’è molto da dire, anche se pulito nella confezione. Soprattutto è la recitazione di Guillame Canet, il protagonista, che tiene. E nella parte finale è proprio lui che fa salire eros, tensione e coinvolgimento. Durata 100 minuti.
L’orto americano. Pupi Avati filtra un raffinato bianco e nero virato ma la vicenda tiene solo a metà. Fine della seconda guerra mondiale. Un ragazzo bolognese vede un’infermiera in divisa dell’esercito americano di stanza in Italia. Rimane sconvolto dalla sua bellezza. Gliel’ha rovesciata dentro il destino. Lei si sta spostando a Ferrara. Non la vede più. 1946. Lui vuole diventare un grande scrittore. Si reca in una cittadina dello Iowa per ambientare qui il suo primo importante romanzo. L’orto del titolo è quello che lo separa dalla casa di un’anziana immigrata italiana. Orto e immigrata lo riconducono alla ragazza americana del suo fulminante innamoramento. Ed è proprio dall’orto che proviene il mistero che lo rispedisce bruscamente in Italia. Si può pensare che le scene che vediamo sullo schermo, siano le pagine del romanzo che il ragazzo sta scrivendo. E che Pupi Avati ha effettivamente scritto per trarne questo suo film. Solo che una volta in Italia la vicenda si carica troppo, scade parossisticamente, perde la corrispondenza con l’eleganza e il discorso pulito di quel bianco e nero. E anche il bravo Roberto De Francesco, in un doppio ruolo, suo malgrado, non può sfuggire al parossismo. Durata 107 minuti.
Flow – Un mondo da salvare. Vincitore dell’Oscar 2025 per il Migliore Film d’Animazione, torna meritatamente al cinema. In un mondo post catastrofe da diluvio universale, ci sono solo relitti e incantate vestigia da fiaba emergenti da città ormai sommerse. Non un’immagine, una voce umana. Solo scrosciare di pioggia, urlo di venti e dei marosi, e versi di animali, fruscio della vegetazione rigogliosa al placarsi delle tempeste. Flow è un gatto che si ritrova con altri quattro animali su un’imbarcazione con una vela all’orientale sghemba ma ancora issata. I cinque naviganti sono ognuno diverso dall’altro, ma tutti devono mettere in gioco le rispettive caratteristiche e cooperare per sopravvivere. Un monito, un esempio per il conflittuale umano. ‘Flow’ significa flusso, e il film stesso è uno scorrere tra acque, situazioni e avventure fluenti. Il segno grafico è nitido, improntato a stupore paesaggistico, ma anche a tranquillo mare dell’angoscia, per la struggente visione di quanto potremmo perdere. Durata 84 minuti.
Noi e loro. Un bruciante dramma reale in una pagina cinematografica non sempre all’altezza. Un ferroviere tira su da solo due figli. Quello più giovane, liceale, aspira alla Facoltà di Letteratura della Sorbona. Quello più grande, frequenta poco il professionale meccanico, preferendo le curve degli stadi lambite dai gruppi nazi. E a spirale sempre più da questi si lascia avvolgere. Il padre viene da incarichi sindacali e solidi ideali di riscatto sociale, democratico. Il dissidio con il maggiore si fa sempre più acuto, nonostante i ripetuti tentativi di entrambi di superarlo. Fino a una tragica svolta finale. Il ferroviere è faccia a faccia con sé stesso, con un’intera vita, sua e quella collettiva di chi si è battuto per l’affermazione di quei valori. Un fallimento? Un’attualità storica e politica che travalica persone e società nel suo insieme? Vincent Lindon fisico e spirito ben intonato al personaggi. Bravi anche Benjamin Volsin e Stefan Crepon nei due figli. Regia a doppia mano femminile delle sorelle Delphine e Muriel Coulin. Durata 110 minuti.
Sotto il cielo grigio. Un drastico ma coraggioso low budget sulla dura repressione della libertà di stampa in Bielorussia. Da un balcone davanti il Palazzo dell’Indipendenza, in Victors Avenue a Minsk, una giornalista e la sua operatrice riprendono e commentano in diretta social il massiccio e brutale intervento dei reparti della polizia Omon contro una grande manifestazione popolare. Rintracciate da un drone, vengono arrestate e sbattute nel carcere di massima sicurezza. Si fanno pressioni sui familiari perché le convincano a scrivere e firmare una lettera di pentimento e richiesta di perdono. Ma loro non cedono. Allora si stringe ancora di più il giro di vite. Devono farsi riprendere in un video in cui ripudiano il loro comportamento e ammettono la loro colpa. All’ulteriore rifiuto, sono condannate per alto tradimento a otto anni di galera. In chiave di finzione cinematografica, è la vicenda reale della giornalista televisiva Katsaryna Andreyeva e della sua camera woman Darya Chultsova, attualmente al carcere duro per il loro continuo impegno nel documentare le manifestazioni contro il regime Lukashenko. La regista Mara Tamkovic, bielorussa di origine polacca, ha girato questo film con un contributo di soli 250.000 €, cifra stanziata dal governo polacco per il poggetto Microbudget, dedicato a registə esordienti. Durata 81 minuti.
Il Caravaggio perduto. Il sorprendente capitombolo all’indietro di quattro secoli di un quadro mai tanto atteso e inseguito dai mercanti d’arte. In questo periodo è esposta nella mostra dedicata a Caravaggio nel prestigioso Palazzo Barberini, in Via Quattro Fontane a Roma. Si tratta di Ecce Homo, datato 1606. Scambiato per un minore della scuola Ribera, era finito in una galleria d’arte di Madrid. Per conto della famiglia che lo aveva posseduto nel proprio appartamento durante mezzo secolo, stava per essere battuto all’asta per soli 1500 €. Cifra ritenuta più che soddisfacente. Ma poi che è successo? Perché i maggiori mercanti d’arte e loro emissari hanno cominciato a convergere nella capitale spagnola e a intessere mosse, alleanze, offerte tra Londra, Parigi, Roma per non far svolgere quell’asta? Una storia davvero avvincente che mette faccia a faccia la potenza dell’arte con quella del mercato. Esperti, critici, storici dell’arti, giornalisti internazionali, prestigiosi restauratori fiorentini, tutti coinvolti, travolti dallo sleeper, il quadro dormiente dal più maledetto e santo dei nostri pittori, Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, il nome del marchesato lombardo in cui si riteneva fosse nato. Durata 78 minuti.
Hokage – Ombra di fuoco. Esce con due anni di ritardo ma non va assolutamente perso. Non si capisce come mai, pur essendo stato questo film presentato a Venezia 2023, è in distribuzione solo ora. È appena in tre sale a Roma: figuriamoci altrove. Non si può sfuggire al dubbio di selezione culturale, per non chiamarla striscio-censura. Giappone fine della seconda guerra mondiale. In una città rasa al suolo e bruciata da bombe incendiare, un bambino orfano di tutto si aggira tra le macerie, in cerca di nuda sopravvivenza. Una donna sopravvive anche lei, cucinando e prostituendosi per poche monete. Così che ogni tanto riesce a sfamare anche il bambino Poi appare un soldato reduce dal fronte filippino, lacero contuso nei panni esteriori e nei danni interiori. Sembrano riformare una famiglia, per quanto stracciata e mal assortita. Ma il regista Shinya Tsukamoto non crede nelle favole consolatorie, dato che questo racconto si svolge sì a metà degli anni ’40, ma viene proiettato ora, quando ci sono una cinquantina di conflitti sparsi nel mondo, e in un di questi c’è sullo sfondo il fantasma non delle bombe incendiarie, ma direttamente di quelle atomiche. Intanto il bambino si imbatte in una pistola, in tutti i sensi più grande lui. E in successione anche un uomo, anche questo certamente più grande di lui. Entrambe, arma e creatura, se le porta in viaggio con sé. La raffinatezza della cinematografia di Tsukamoto sembra rispondere a quel kantiano “cielo stellato sopra e legge morale dentro” che fa dell’arte forse l’unica possibilità di ridare vita e voce a coloro cui il potere le toglie violentemente. In maniera acutamente lacerante, però, il film ci mette davanti alla realtà che non solo i civili, ma tra questi, proprio i bambini sono ormai diventati le vittime ricercate e privilegiate da chi su ogni fronte fa guerra. A quando un Tribunale Internazionale sui crimini di guerra contro l’infanzia? Durata 95 minuti.
Riccardo Tavani