Le canzoni, il terrorismo e le trivelle

Il 22 di marzo è iniziato con le tragiche notizie di Bruxelles. Dolore, angoscia ed un pervasivo senso di disorientamento. Che cosa succede, come uscirne, dove sbagliamo: più che domande sono il rumore di fondo della nostra mente, mentre, bene o male, siamo costretti ad affrontare gli impegni della vita normale, in un giorno così triste. Mentre mi accingevo a prendere la metropolitana, non riuscivo a non avvertire un’ansia prima sconosciuta per un atto così quotidiano e abituale. Ansia che mi rendeva cosciente che la vita, oggi, non è più la stessa: forse era così per i miei genitori durante la guerra, certo è ancor peggio per quelli che vivono in Siria, in Iraq, in Nigeria, in tutti i paesi dove le bombe e la violenza sono un fatto di tutti i giorni. Sono salito sulla metro, con un dolore nuovo nel profondo del cuore, e mi sono messo a leggere le solite squallide notizie sul giornale. Alla fermata successiva, sono saliti due tipi strani: folti baffoni e capelli nerissimi, sembravano quasi una caricatura dei sudamericani. Hanno tirato fuori dalle loro borse una chitarra e un violino, ed hanno cominciato a cantare una vecchia canzone. Certo, non erano grandi artisti; avevano voce di uomini normali, suonavano abbastanza bene, ma con garbo, con attenzione. Cantavano vecchie canzoni, da Guantanamera a Comandante Che Guevara, offrendo sogni d’amore e di rivoluzione. Noi passeggeri della metro, tutti o quasi, abbiamo sollevato gli occhi dagli smartphone e dai giornali, ci guardavamo intorno stupiti, non più avvezzi ad una cosa bella e normale come un canto, un’imprevista musica dal vivo, offerta con grazia e naturalezza. E quella musica, con la sua armonia, era come una corrente di vita, che portasse via le scorie del dolore e dell’angoscia, in un giorno così triste. Quando hanno smesso di suonare, non c’era più un volto che non sorridesse, ma sommessamente, come per non turbare una breve, fugace magia. Vi ringrazio, sconosciuti trovatori di un continente lontano, per aver portato un momento di pace e di bellezza. Si, la vita continua anche attraverso il lutto e il dolore, ed ha il volto e la voce di due migranti che sbarcano il lunario cantando sulla metropolitana.

Ma il giornale, con le sue notizie, mi riportava ai nostri problemi, alla cronaca e alla politica. In particolare ad un fatto che, inapparentemente e sotterraneamente, si collega agli attentati di Bruxelles. Mi riferisco al prossimo referendum popolare definito, dai giornali, “antitrivelle”: quello che vorrebbe frenare la libertà di ricerche petrolifere (e, ovviamente, di estrazione) lungo le nostre coste. Prima di vedere come mai si collega al terrorismo, esaminiamo quel che sta accadendo. Una pezzo rilevante del Paese (nove Regioni) ha chiesto di ricorrere al voto referendario per decidere sulle piattaforme petrolifere davanti alle nostre coste. Qualunque governo democratico, dovrebbe essere del tutto soddisfatto che i cittadini esprimano il loro volere con un referendum: in fondo, la sovranità è del popolo, recita la Costituzione: il governo è solo il suo servitore. Ma da noi no. Il primo ministro ha subito detto che il referendum è una spesa inutile, 300 milioni di euro buttati al vento! Peccato che di spendere tanti soldi l’abbiano deciso proprio loro, fissando la data in un giorno diverso rispetto alle prossime elezioni amministrative: ma allora chi è che butta i soldi? D’altronde, è prassi vecchia e consolidata fare di tutto affinché più gente possibile “vada al mare” (Craxi dixit) e non al voto. Non importa se costa più soldi del necessario (tanto, poi, pagheremo sempre noi cittadini sovrani, in barba alla sovranità); non importa se si devono chiudere le scuole una volta di più (in barba alla “buona scuola”). Ma il messaggio più brutto era partito qualche giorno prima. Ai primi di marzo, il PD presenta un emendamento (anzi due: meglio essere sicuri) che elimina l’articolo 6 del disegno di legge che dovrebbe normare la gestione pubblica dell’acqua. E’ la legge che dovrebbe attuare quanto espresso dal referendum popolare del 2011; oltre tutto, è una legge d’iniziativa popolare. L’emendamento intende, semplicemente, annullare la volontà espressa dagli italiani con il voto referendario del 2011 e consegnare l’acqua in mano ai privati. Se vogliamo, rassomiglia ai “messaggi trasversali” tanto cari alla mafia: cari elettori, fate pure i vostri referendum, tanto noi facciamo come ci pare. E questo spiega molto bene cosa intende Renzi per soldi sprecati: i referendum sono davvero inutili! Le leggi, sembra dire il nostro premier, le facciamo noi, perché “io so’ io e voi non siete un cazzo”.

Nel merito della questione, c’è poi tutta un’idea dello sviluppo, delle fonti energetiche e della politica industriale datata, vecchia, miope e “petroliocentrica”. Non riescono proprio a immaginare un mondo in cui si consuma sempre meno petrolio, che, poi, sarebbe proprio l’impegno che tutti – anche il nostro governo – hanno sottoscritto a Parigi. Forse bisogna spiegarglielo: ridurre le emissioni di CO2, vuol dire indirizzare la politica energetica verso il progressivo abbandono del petrolio e del gas. Non si possono firmare i trattati di Kioto e di Parigi per la riduzione delle emissioni e, contemporaneamente, sostenere la ricerca del petrolio: è una forma di schizofrenia o, forse, l’apoteosi dell’ipocrisia. Qualcuno li ha avvertiti che in Spagna e Marocco si stanno mettendo in pratica le idee di Carlo Rubbia sul solare termodinamico? Hanno sentito parlare del progetto Desertec, che surclassa le centrali nucleari per quantità d’energia prodotta? Al confronto, il petrolio del mediterraneo è tecnologia di retroguardia: roba del secolo – anzi del millennio – passato.

C’è, poi, il problema dei rischi ambientali. La storia dimostra che i cosiddetti “incidenti” non sono eventi assurdi ed imprevedibili. Gli incidenti esistono, accadono, ad onta della tecnologia. Noi persone del XXI secolo, sappiamo ormai per esperienza che gli incidenti, anche se rari, sono una certezza, non un’alea. Una politica seria delle fonti energetiche, non può far finta di ignorare questa regola aurea: è realistico pensare che un incidente accadrà, è illusorio pensare che nessun incidente ci sarà mai. Il governo dovrebbe saperlo, visto che l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale: un ente dello stato, non una conventicola di contestatori) già nel 2011 ha pubblicato un rapporto, in cui afferma: “Ben più gravi, purtroppo, sono stati gli incidenti che hanno coinvolto le piattaforme di estrazione del greggio. Nel 1979 l’esplosione della piattaforma Ixtoc I nella Baia di Campeche nel Golfo del Messico portò una colossale fuoriuscita di petrolio, almeno 454.000-480.000 tonnellate, durata ben 9 mesi. Più recentemente, il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon ha innescato la fuoriuscita di ingenti quantità di petrolio, stimate fra 500.000 e 627.000 tonnellate, sempre nella zona del Golfo del Messico”. “Ben più gravi” si riferisce al confronto con gli sversamenti (accidentali e, talvolta, volontari) dalle navi cisterna. Che pure non sono poca cosa: sempre l’ISPRA ci dice che  “fra il primo agosto 1977 ed il 31 dicembre 2010, circa 312.000 tonnellate di petrolio sono state sversate nel Mediterraneo a seguito di 545 incidenti”. Ripeto, gli incidenti esistono, non sono “sfiga”: sono una certezza, purtroppo. Seveso, Bophal, Chernobyl, Fukushima, la Bretagna, l’Alaska, il golfo del Messico, lo dimostrano in modo incontrovertibile.

E veniamo, come promesso, al rapporto che tutto questo ha col terrorismo. Se ci pensiamo bene, l’interesse delle grandi potenze nel medio oriente e nel nord Africa si chiama petrolio. Le guerre che si combattono in quelle aree sono guerre per il petrolio. Non vi viene il dubbio che un mondo libero dal petrolio sarebbe un mondo più felice? Che la pace si conquista con le energie rinnovabili? Meno petrolio, meno guerre, meno terrorismo, non soltanto meno CO2: è anche questo che andiamo a votare.

di Cesare Pirozzi