Stefani Cucchi aveva trent’anni

Stefano Cucchi aveva trent’anni quando, il 15 ottobre del 2009, fu fermato dai carabinieri perché trovato in possesso di qualche grammo di hashish, cocaina e antiepilettici.

Dopo una settimana nelle mani dello Stato – tra caserme, tribunale, carcere e ospedali – che lo aveva in custodia, sempre tenuto lontano dalla sua famiglia, Stefano è morto.

E’ solo grazie alla forza della sorella Ilaria e al desiderio di giustizia della famiglia Cucchi che l’Italia ha conosciuto la triste fine di un ragazzo, magari colpevole di un reato minore, fragile e minuto, sofferente di epilessia.

Quando la sua storia è diventata pubblica, quando le terribili foto di un corpo ridotto a pelle e ossa e coperto di ematomi su tutto il corpo sono state mostrate un dubbio si è acceso nell’opinione pubblica.

Il sospetto che chi doveva custodirlo lo abbia, invece, ucciso.

Una domanda si è insinuata nel dibattito: perché un ragazzo nelle mani dello stato è morto e cosa hanno fatto le istituzioni che lo tenevano in custodia per proteggerlo prima e per salvarlo poi?

Un dubbio che i difensori della legge e ordine “senza se e senza ma” – almeno quando i presunti colpevoli sono i soggetti più deboli della nostra società – non potevano consentire. In tutti i modi si è cercato di screditare Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Per loro, semplicemente, Stefano non è stato ucciso dalle percosse ricevute ma è morto perché era un drogato e un anoressico.

A distanza di nove anni non abbiamo ancora una risposta. A luglio dello scorso anno, a conclusione dell’inchiesta bis, sono stati rinviati a giudizio cinque carabinieri accusati di aver sottoposto Stefano Cucchi a misure restrittive illegali e di averlo percosso fino a procurargli lesioni che, anche per il comportamento omissivo dei medici curanti, l’hanno ucciso.

Senza la perseveranza di Ilaria Cucchi non si sarebbe riaperta nessuna inchiesta. Non tutte le vittime, però, hanno una donna coraggiosa come lei a chiedere giustizia. Allora sta a tutti noi chiederci se, tra gli oltre 60 “suicidi” che ogni anno avvengono negli istituti penitenziari italiani, non si nasconda, in realtà, anche qualche omicidio.

Quando i cadaveri dei suicidi portano i segni delle percosse, poveri resti con costole fratturate, polsi rotti e organi interni spappolati come possiamo associarli a una morte per suicidio?

Quando a “suicidarsi” sono detenuti a fine pena, carcerati in procinto di testimoniare contro agenti accusati di violenza o che denunciato pestaggi è doveroso domandarsi cosa avviene all’interno del sistema.

Se l’istituzione carceraria è capace di produrre tanta violenza, cosa ne è dell’articolo 27 della Costituzione e della finalità rieducativa della pena tesa a ridurre, o eliminare, la reiterazione dei reati e facilitare il reinserimento nella comunità? E cosa accadrà se le forze politiche che utilizzano le legittime paure dei cittadini nella loro azione di governo cancelleranno gli strumenti premiali che creano motivazioni per un comportamento sociale corretto?

Fuori da ogni ideologia populista e giustizialista, gli uomini e le donne che lo Stato ritiene di dover tenere costretti non sono altro da noi. Quello che accade all’interno di istituzioni totali come le carceri è interesse tutta la comunità nazionale. Mai lo Stato può lasciare impunito chi utilizza il proprio potere per vessare e umiliare.

di Enrico Ceci