Pateh Sabally, come si muore di indifferenza

Quel volto, Signore, è stato un incubo per tutta la sera; è un rimprovero vivente, un grido lacerante che mi raggiunge nella mia tranquillità. È giovane quel viso, Signore, e pure i peccati degli uomini si sono accaniti sopra di lui.

(M. Quoist , Preghiere)

Il volto di Pateh Sabally non sono riuscita a vederlo dal video che lo ritrae mentre annega nel Canal Grande, a Venezia. Ho dovuto cercare una foto, è giovane quel viso, eppure tutti i più osceni peccati dell’uomo si sono abbattuti su di lui.
Pateh Sabally è morto suicida a 22 anni, tirato giù dall’acqua gelida della laguna sotto gli occhi di centinaia di turisti. Arrivato dal Gambia, si era salvato dall’acqua giungendo sulle coste italiane, a Pozzallo aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, si era spostato poi a Milano, da lì il treno che lo ha condotto a Venezia. Lasciato lo zaino fuori la stazione, Pateh si è gettato nel Canal Grande ed è andato giù, l’ultimo soffio di vita lo ha esalato tra l’indifferenza e gli sghignazzi di quelli che hanno assistito al dramma come un qualsiasi spettatore assisterebbe ad uno spettacolo teatrale. C’è stato anche chi, come si fa durante gli spettacoli, ha ripreso i momenti salienti.
“Africa, Africa”, “Questo è scemo”, “Ma fallo morire”, voci divertite, qualcuno grida di gettare in acqua un salvagente. Un vaporetto, che sta passando accanto al ragazzo, ne lancia uno ma Pateh non prova nemmeno ad afferrarlo. Nessuno dei presenti si butta in acqua, nessuno del personale di bordo del vaporetto che sta transitando ad una manciata di metri dal giovane tenta manovre alternative. Nel video registrato dal Ponte degli Scalzi, non si sente nessun grido di disperazione. I toni sono chiari e sono di scherno.
Ma fallo morire, Africa. Forse ha ragione Ferruccio Sansa, quando sul Fatto Quotidiano scrive che, nella convinzione di chi dichiara che si sarebbe certamente buttato per soccorrere Pateh, c’è tanta ipocrisia e quella spavalda sicurezza di chi non si è probabilmente mai trovato di fronte a quella linea (affatto sottile) che separa l’idea che ognuno di noi ha di sé da ciò che realmente è. Probabilmente non siamo tutti degli spiriti coraggiosi, e pochi di noi sarebbero saltati nella laguna. Pochi, ma non nessuno. Dentro quel vuoto è costretto a specchiarsi ognuno di noi per chiedersi dove è finita la solidarietà umana. Dove la pietà, se c’è chi sa ridere della morte di un ragazzo perché nato in un angolo di mondo diverso. Quelli che hanno deriso, insultato Pateh mentre annegava continuano serenamente con la propria vita, non credo siano stati nemmeno identificati. L’indifferenza della totalità dei presenti non verrà punita in alcun modo. Tantomeno verrà punita l’indifferenza di tanti di noi che sono altrettanto responsabili della morte di Pateh Sabally, per ogni volta che hanno guardato con disprezzo la povertà del migrante, che hanno giudicato le sua onestà in base al colore della pelle o alla religione. Per ogni conveniente “aiutiamoli a casa loro”, per ogni volta che abbiamo negato a queste persone la possibilità dell’incontro, del dialogo, dell’accoglienza.
Di Pateh Sabally ci dimenticheremo tutti tra qualche giorno, forse alcuni di noi hanno già dimenticato. Il 27 Gennaio abbiamo celebrato il Giorno della Memoria, riempendoci la bocca di parole che non sappiamo mettere in pratica nel nostro tempo, quando un altro Olocausto ci passa sotto gli occhi e noi assistiamo silenziosi.

Di Martina Annibaldi