Il giorno della memoria e la storia di Georgette, perseguitata dall’Isis ai giorni nostri
Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, impegnate nella grande offensiva che li avrebbe spinti nel cuore della Germania, liberavano i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz, mostrando al mondo intero fino a che punto poteva spingersi la ferocia nazista. Quella che venne cinicamente definita la “soluzione finale della questione ebraica” dagli stessi vertici del partito, rivelò al mondo una serie inimmaginabile di strumenti di tortura e morte, utilizzati dagli aguzzini delle SS contro ebrei, omosessuali, zingari e prigionieri di guerra e politici.
Da quel giorno, il 27 gennaio di ogni anno, il mondo intero ricorda l’Olocausto: le prime pagine dei giornali, i programmi e i film in televisione, così come i social network danno ampio spazio all’argomento e ricordano tanto la crudeltà del nazionalsocialismo quanto la bontà d’animo e il coraggio di chi, negli oscuri anni del conflitto, ha tenuto nascosto nella propria abitazione coloro che venivano considerati “i nemici del Reich”.
Oggi sembrano passati secoli da allora, coloro che hanno vissuto in prima persona quei terribili avvenimenti stanno via via scomparendo, lasciando i propri ricordi in affidamento alle future generazioni, nella speranza che un simile scempio non si ripeta.
Malgrado tutto questo, un nuovo regime si è già affacciato all’orizzonte e miete quotidianamente le proprie vittime, organizza i propri campi di lavoro e affina le proprie tecniche di sterminio. Le forze dello Stato Islamico hanno molti punti in comune con quelle che erano al servizio di Hitler settant’anni fa: una solida base militare, il controllo delle risorse e, soprattutto, l’odio e la discriminazione verso ogni tipo di oppositore, la persecuzione e l’eliminazione del diverso. Così, capita di ascoltare storie come quella di Georgette Hanna, cristiana di Tel Keff, cittadina alle porte di Mosul, conquistata dall’Isis nel giugno del 2014. Nell’estate di quell’anno decine di migliaia di cristiani della piana di Ninive furono costretti alla fuga o alla conversione forzata all’Islam, molti persero la vita. Ma Georgette Hanna, allora sessantenne, rimase. Non poteva camminare e il suo destino sembrava già segnato: conversione o morte. Allora il miracolo, uno di quei gesti che ti fa dimenticare la guerra e le angherie, che ti ricorda che nel mondo c’è ancora del buono, del giusto. Una famiglia musulmana ha accolto in casa Georgette, l’ha nascosta e accudita per due anni e mezzo, rischiando la vita, ogni giorno. Una famiglia “giusta tra le nazioni”, al pari di quelle che, durante il secondo conflitto mondiale, nascosero i perseguitati dalla Gestapo, dando prova di solidarietà e coraggio.
Ma questa storia non appartiene al passato ma al presente. Il giorno della memoria dovrebbe andare in questa direzione: ricordarci di quello che è stato per interpretare meglio il presente. E invece è solo ridondanza, belle parole che però, il più delle volte, non vengono messe in pratica.
Tutti i giornali avrebbero dovuto scrivere della storia di Georgette, un esempio di umanità, a maggior ragione nel giorno della memoria. Al ricordo, infatti, bisogna sempre affiancare la pratica, la testimonianza dell’aver imparato la lezione.
di Giovanni Antonio Fois