Tremila notti di galera e di censura

Incontro la regista Mai Marsi nella stupenda baia vulcanica di Pollara, nell’Isola di Salina. Alta, slanciata, nel suo lungo abito turchese di seta, conserva tutta la bellezza, la nobiltà del portamento di una persona colta ma radicata nella sofferenza dei popoli. È una notte senza luna ma illuminata da uno schermo cinematografico montato in uno slargo sul mare che Salina ha dedicato a Massimo Troisi. Qui è stata infatti girata – poco prima che morisse – una parte del suo indimenticabile film “Il postino” del 1994. Quello di Mai Marsi è invece uno dei film più aggrediti da assurdi quanto reiterati tentativi di censura. Clamoroso quello subito recentemente a Roma. L’Università Roma Tre aveva programmato e diffuso su tutti gli organi di stampa la proiezione nel Cinema Palladium – ormai di sua proprietà – alla Garbatella di “3000 notti”, il film della regista ambientato in un carcere femminile israeliano. Qualche giorno prima dell’evento l’Ateneo ha emesso un comunicato stampa nel quale affermava che forti quanto imprecisate pressioni esterne lo costringevano a ritirare l’appuntamento atteso da numerosi spettatori romani. I dubbi su pressioni di ambienti israeliani si sono subito diffusi, pur senza poter essere confermati. Il film, infatti, narra la storia vera di una giovane sposa palestinese, Layla, sbattuta senza alcuna prova in galera, per l’aiuto prestato a un ragazzo sospettato di attività anti israeliana. Condannata a otto anni, ossia alle 3000 notti del titolo, sottoposta a tutti i soprusi di un regime carcerario disumano, partorisce e alleva il figlio – di cui era rimasta incinta del marito – per tutto questo tempo. Camminiamo in salita sotto le stelle della strada che da Pollara porta verso Malfa e le dico che il film ha un grande valore drammatico e anche poetico innanzitutto nella sua struttura formale squisitamente cinematografica. Lei mi risponde che i veri contenuti di un film sono le immagini, le inquadrature, le sequenze. Esse devono parlare, esprimere da sole la drammaticità e poeticità di una situazione esistenziale. Di nazionalità giordana, ha studiato cinema alla San Francisco State University e nel corso della sua formazione ha avuto modo di entrare in contatto con il cinema italiano, quello dei Fratelli Taviani in particolare. Qui a Salina questi due maestri italiani sono di casa e con Giovanna Taviani hanno dato vita al Salina Doc Fest, il festival del cinema documentario narrativo più prestigioso del Mediterraneo, conosciuto ormai in tutto il mondo. Marsi è infatti una delle ospiti d’onore del festival. Mi dice che vedere il suo film proiettato nella notte in questo scenario tanto incantato e carico di cinema le ha regalato un’emozione mai provata prima. Soprattutto per il silenzio e l’attenzione con cui il numeroso pubblico ha seguito la sua opera, salutandola alla fine con un grande, prolungato applauso. Mi dice che dentro quel carcere del film c’è la condizione dell’intero popolo palestinese. Le rispondo che c’è un altro aspetto – più profondo – che mi ha colpito. All’improvviso capiamo che la vera resistenza di un popolo sono le sue donne. È proprio il bambino nato in carcere che tutte le prigioniere proteggono con le loro cure e il loro affetto, come fosse davvero il figlio di tutte le donne palestinesi. Il conflitto Israelo-palestinese è stato segnato fin dall’inizio anche dalla questione demografica, dato che le porzioni di territorio venivano assegnate sulla scorta del numero di abitanti. Mi ringrazia per questa osservazione. Mi dice che proprio per questo ha voluto che tra le carcerate protagoniste del film ci fossero due sue figlie e una terza fosse tra le soldatesse israeliane. Le domando come abbia fatto a dirigere in maniera così precisa un numero tanto grande di attrici tra carcerate e carceriere, in uno spazio ridotto e sempre in situazione di forte drammaticità e scontro dinamico. Mi risponde che tra le attrici prigioniere palestinesi ce ne sono molte che hanno davvero sperimentato la durezza delle galere israeliane e che tra le carceriere la maggior parte erano attrici non professioniste. La vicenda è ambientata subito prima e dopo la strage di Sabra e Shatila nel “settembre nero” del 1982. Le prigioniere palestinesi organizzarono un grande sciopero del lavoro interno e della fame che presto si estese alle sezioni maschili. La direzione del carcere per far cessare lo sciopero a Layla – così da influenzare anche le altre – fece leva sul ricatto di toglierle il figlio, cosa poi attuata di fronte al rifiuto della donna. Ma la forza della polarità forma-contenuto mettono il film di Marsi oltre la sua stretta ambientazione storica e per questo ne conservano e ne rinnovano tutta la stringente attualità. Per questo l’aggressione censoria continua ad abbattersi su esso. La regista, però, affronta questa ostilità rabbiosa con il massimo di calma ed eleganza di comportamento. Mi dice che sono sempre di più le persone nel mondo che vedono e apprezzano il suo film, entrando più vivamente nel dramma del popolo palestinese. Al termine della salita, un’auto attende Mai Marsi per ricondurla in albergo. Ci salutiamo con un augurio rivolto ai lettori di Stampa Critica che per lei è però una certezza: la persistenza di questo film permetterà anche a loro un giorno di liberamente vederlo e giudicarlo.

di Riccardo Tavani

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