Il misterioso avvelenamento di Skripal e figlia

Adesso la guerra è a colpi di espulsioni di diplomatici. L’avvelenamento dell’ex spia russa Sergej Skripal e di sua figlia Yulia a Salisbury, nel sud dell’Inghilterra, ha scatenato le ire della premier inglese Theresa May, che si è scagliata – non senza avventatezza – contro Putin, sostenendo che il tentativo di assassinio a mezzo di gas nervino Noviciok sia stato ordinato da Mosca. Molti paesi della UE, oltre a Stati Uniti, Canada e Ucraina si sono schierati con Londra seguendola sulla strada degli allontanamenti di personale diplomatico russo.

Ora, che Putin non sia uno stinco di santo è risaputo ma denunciarlo pubblicamente di un reato così grave sulla base di supposizioni è singolare. La Russia l’anno scorso ha distrutto i propri arsenali chimici, rispettando gli accordi internazionali, ma è possibile che ne siano state conservate delle dosi. E ci sono i precedenti di altri omicidi “misteriosi”, su tutti quelli di Aleksandr Litvinenko – ex agente dei servizi segreti avvelenato con il polonio a Londra nel 2006 – della giornalista Anna Politkovskaja – uccisa a revolverate nell’ascensore del suo palazzo a Mosca nell’ottobre dello stesso anno – e dell’oppositore politico Boris Nemtsov – crivellato a colpi di fucile a due passi dal Cremlino tre anni fa. Però ricondurre queste uccisioni a un’unica regia è semplicistico.

Così come è fuori della realtà immaginare tutto il territorio russo – che è immenso, ordinato in senso federale e con strutture di controllo relativamente giovani e perciò deboli – sotto il ferreo controllo dello “zar”. E probabilmente Putin non controlla neanche tutti gli apparati dello Stato. Tra l’altro non avrebbe avuto senso macchiarsi di un duplice attentato (Skripal e la figlia non sono morti ma non si sa se sopravviveranno, e comunque hanno riportato danni celebrali permanenti) proprio nel momento in cui si apprestava a vincere le elezioni con più del 76% dei consensi. Certo, non gli dispiace dare a intendere che abbia la situazione in pugno, e forse preferisce passare per assassino piuttosto che fare la figura del leader debole. O, ancora di più, non gli dispiace che l’accaduto faccia da monito a futura memoria.

di Valerio Di Marco