Sana Cheema: uccisa dalla famiglia perché voleva essere libera

Esistono paesi in cui la vita umana non possiede un valore assoluto; paesi in cui la vita di una donna può valere meno di quella di una capra, e in cui togliere la vita può essere considerato un diritto. Paesi in cui uccidere una figlia non è un’azione poi così grave, se necessaria a salvaguardare il buon nome della famiglia. Sana Cheema, di origine Pakistana ma residente a Brescia (aveva da poco ottenuto la cittadinanza italiana rinunciando definitivamente a quella pakistana), aveva venticinque anni, e la sua unica colpa è stata quella di voler vivere la propria vita, di voler essere indipendente, lavorare e fare le proprie scelte. Trasferitasi in Italia con la propria famiglia ancora bambina, Sana è cresciuta confrontandosi con la mentalità occidentale, frequentando le scuole italiane, circondandosi di amiche italiane.

Forte del suo coraggio e del suo desiderio di libertà, Sana ha combattuto e vinto molte battaglie: scontrandosi con una famiglia che voleva per il suo futuro nient’altro che un matrimonio combinato come da tradizione pakistana, sin da piccola si è rifiutata di adeguarsi a una cultura che non sentiva propria, rifiutando di portare il velo e vestendo abiti occidentali; contro il volere di un padre che voleva fosse segregata in casa è riuscita a terminare gli studi, a trovare lavoro presso una scuola guida, fino ad aprire un’attività in proprio, un’agenzia di pratiche auto rivolta in particolar modo ai suoi connazionali, che supportava nell’espletamento della burocrazia girando per le motorizzazioni e facendo da interprete. Amata e benvoluta dalla sua comunità, a Sana mancava un ultimo traguardo per potersi definire finalmente libera: scegliere liberamente l’uomo da avere al proprio fianco. La ragazza, infatti, era innamorata di un suo connazionale, anch’esso residente in Italia, e con il quale aveva una relazione, anche se promesso a un’altra donna.

Una relazione travagliata causa di grande sofferenza per lei, ma anche di grande preoccupazione per la famiglia, che non accettava che Sana frequentasse un uomo senza che fosse stato preso un impegno ufficiale. Rientrata in patria, dove avrebbe dovuto trattenersi per un paio di mesi per andare a trovare la sorella da poco divenuta mamma, Sana ha dovuto però fare i conti con le pressioni da parte della famiglia che la voleva “sistemata” prima del suo rientro in Italia; il padre, dipendente di una fabbrica siderurgica di Brescia, avrebbe detto ai colleghi che sarebbe rientrato in Pakistan “per risolvere una questione urgente”. Nello stesso periodo in Pakistan era rientrato anche il ragazzo di cui Sana era innamorata, ma per fidanzarsi ufficialmente con una cugina. Sembrerebbe che la mamma della ragazza, che di quest’amore impossibile stava facendosene una malattia, abbia addirittura provato a intavolare una trattativa per combinare un matrimonio tra i due, trattativa poi naufragata. Il 18 Aprile, a poche ore dal volo che l’avrebbe ricondotta in Italia, Sana è morta.

Cosa sia realmente accaduto è ancora oggetto di indagine; di certo si sa che la famiglia ha cercato di far passare la morte della ragazza come una “morte per cause naturali” (“Sana ha smesso di mangiare, si è ammalata ed è morta per le complicazioni” avrebbe detto la madre), ma le circostanze poco chiare hanno da subito insospettito la comunità pakistana a Brescia, gli amici di Sana, che sono insorti affinché fossero svolti degli accertamenti sulle vere causa del decesso. L’autopsia disposta sul corpo della giovane ha rivelato, infatti, che la morte è sopraggiunta per strangolamento, talmente violento da averle fracassato le ossa del collo. Fermati per l’omicidio della ragazza il padre (che avrebbe confessato, dichiarando di aver perso la testa nel corso di una lite con la figlia, per poi ritrattare la confessione sostenendo che le fratture fossero riconducibili a una caduta, e quanto accaduto “è accaduto per volere di Allah”), il fratello, un cugino (che avrebbe trasportato il corpo per la frettolosa sepoltura avvenuta il giorno dopo il decesso) e un medico compiacente, autore di un falso certificato di morte che avrebbe autorizzato la sepoltura. Indagate, inoltre, anche la madre della giovane e una zia.

La storia di Sana, anche grazie al clamore sollevato dalla comunità pakistana a Brescia, ha catturato l’attenzione dei media, portando alla ribalta un caso che, con molta probabilità, sarebbe passato inosservato. In Pakistan, come in altri paesi, il delitto d’onore non è considerato un reato grave, al punto che il semplice perdono da parte dei familiari della vittima è sufficiente all’espiazione della colpa. In attesa di conoscere l’esito delle indagini e la verità giudiziaria sulla morte di Sana la comunità di Brescia è scesa in piazza per ricordare la giovane concittadina, nella speranza che mantenendo viva l’attenzione sulla vicenda si possa realmente ottenere giustizia in un paese in cui la legge non è uguale per tutti.

di Leandra Gallinella