Il cinema e l’effetto sesso, plastica, potere

Questa seconda parte del film di Sorrentino su Berlusconi è decisamente migliore della prima. Eppure se si mettono insieme i due film sorge il dubbio sul perché non si sia fatto un solo film, anche di centocinquanta minuti contro i duecento quattro degli attuali due, dato che il taglio di un’ora avrebbe sicuramente giovato alla sintesi drammatico-esistenziale di una rappresentazione del potere nell’epoca attuale. Attorno a quale questione gravita allora questo ridondante raddoppiamento narrativo? Al raddoppiamento degli incassi a mezzo logica delle serie TV applicata al cinema? È vero che un film non può trascurare il fattore cruciale degli incassi, ma tale fattore non può prevalere in un cinema che vuole segnare il pensiero critico con una cifra stilistica e d’arte tale da toccare anche il senso umano più profondo di un’epoca. Berlusconi e tutti quelli che lui ha ispirato nel mondo, ultimo Trump, non sono la causa dell’attuale crisi della politica e del progressivo corrompersi delle pratiche del potere nelle democrazie occidentali. Essi sono il risultato di un tramonto dell’Occidente, proprio in ciò che più lo ha caratterizzato, ossia l’arte architettonica della politica e della democrazia quale suo esito più avanzato. Mentre dietro l’orizzonte scende l’astro della Politica, sulla stessa linea si alza quello della Tecnica. E questa si alimenta di altri processi costitutivi, istitutivi e rappresentativi. Proprio in quanto non politici, ma imprenditori i Berlusconi nel mondo conquistano i governi. In quanto decisori che sanno combinare insieme fattori produttivi, economici, finanziari, tecnici, aziendali. I contorti meccanismi tipici della politica si sono venuti ormai costituendo come un ostacolo esiziale allo sviluppo di quei fattori. Un’autentica liberazione della Tecnica dalla Politica comporterebbe però una ben più radicale comprensione dei processi in atto nel sottosuolo della società e conseguentemente una più vasta visione e linea d’azione. Invece Berlusconi e i suoi emuli sfruttano questa spinta epocale di declino, se non proprio rifiuto della politica ma solo al fine di conservare e anzi rafforzare il potere di una classe imprenditoriale e dirigente connotata dalla logica e dall’ideologia del profitto a ogni costo.

Il regista ha invece preferito indugiare proprio sugli aspetti più rilucenti e rutilanti della superficie. Anche perché questi gli permettono di dare sfogo alla sua libidine immaginativo-scenografica, che si avvale di indubbie capacità realizzative. Si può ragionare – sotto due diversi aspetti – sull’effetto sesso, plastica, potere che il film egregiamente confeziona. Primo: questa è la reale rappresentazione del vertice della post-politica oggi. Anche il sesso che già nel suo fondamento è sempre legato al potere non può fare a meno di andare oggi a proiettarsi su scintillanti, lussuriose superfici plastificate. Per esprimere efficacemente questa mutazione, il cinema d’autore deve diventare anch’esso post, giacché la sua vecchia, nobile forma resta criticamente, stilisticamente, artisticamente legata a quel residuale modo di intessersi di politica, cultura e potere. Tessitura torva, proterva ma sempre da rappresentazione scenica altamente drammatica. Oggi non più. Il canone non è più quello della vertigine tragica o anche comico-satirica della commedia dissacrante, ma quello della trivialità cabarettistica da Compagnia del Bagaglino di Pingitore e Castellacci.

In questo senso, la maschera berlusconiana applicata sulla faccia di Toni Servillo va veramente – sociologicamente e culturalmente – oltre lo schermo. Il faccia a faccia tra Berlusconi e il banchiere suo socio Ennio Doris è un faccia a faccia abissalmente plastico dello stesso Servillo con sé stesso, in quanto li interpreta entrambi, l’uno di fronte all’altro. Plastico nel senso più estensivo ma anche più merceologico del termine. Lo schermo stesso deve assumere la consistenza di merci-persone-plastica vorticanti nel vuoto delle pubblicità e delle esistenze. A tot post-politica plastificata, tot post-cinema altrettanto plastificato.

Il secondo modo di ragionare sull’effetto sesso, plastica, potere è questo. Politica viene dal greco antico Polis, ossia moltitudine, pluralità, collettività, città. Dov’è la città in questo film? Si può rispondere che non c’è, non si vede, non è rappresentata, proprio perché non c’è più la Politica. Può darsi, ma i più, la pluralità, la collettività continuano a esserci. Soprattutto per il cinema continuano a esserci. Esso non può farne a meno. A meno di non trasformarsi esso stesso in cibo e sesso raffinatamente plastificati per serie televisive quali sfondo permanente per quello che veramente conta. Ossia il continuum spazio-merce-pubblicità. Il cinema esso stesso merce-plastica.

Ogni buon film prevede che verso il finale ci sia un faccia a faccia, un redde rationem frontale tra un protagonista e un antagonista. Le ragioni dell’uno devono schiaffeggiare sonoramente il pensiero e la faccia dell’altro con pari forza argomentativa. Sorrentino affida questo cruciale scontro diretto a Silvio-Servillo e a Veronica-Sofia Ricci. Magistrali entrambi. All’elenco della corruzione postribolare e di potere che la moglie infligge a filo di rasoio sul volto del marito, Silvio risponde non negando niente, ma contrapponendo la sua vitalità ancestrale a quella esangue, paralizzata della Lario che non riesce neanche a ridere, perché deve prima chiedersi se è giusto o no farlo. In quanto al suo potere economico, le sbatte sul viso che tutti sono come lui, pronti a compiere qualsiasi efferatezza: solo che lui è il più bravo di tutti a farlo. Poi a ogni sua nuova risposta, lui la incalza: “Perché allora sei stata tutto questo tempo con me?”. La risposta di Veronica è, in modo disarmante, allo stesso tempo vincente e perdente: “Perché mi hai fatto innamorare, è questo quello che hai avuto in più”. In una delle scene iniziali Doris-Servillo aveva ricordato a Berlusconi-Servillo che loro due sono non tanto e solo i più bravi venditori, quanto i più grandi venditori di sogni.

Dialogo-scontro quasi perfetto, ma ci chiediamo se la politica, la democrazia, il potere siano stati solo la vendita di un sogno, l’illusione di un innamoramento, o non piuttosto un rapporto conflittuale e critico di cui proprio il cinema d’autore è stata la massima espressione sociale, artistica e culturale? Il finale con una statua di Cristo che cala imbracata da una gru manovrata da un Vigile del Fuco tra le macerie dell’Aquila è la citazione dalla scena iniziale da La dolce vita di Fellini, con un elicottero che trasposta una statua del Messia sorvolando le vestigia antiche e quelle moderne della speculazione edilizia nella periferia romana. La dolce vita di Anita e Marcello è diventata la schiera dei loro berlusconiani che sniffa coca, sesso e chirurgia plastica del potere? Questi Loro di Sorrentino, però, non sono per niente quei più, quella pluralità, quella città del cinema che è sì sogno ma soprattutto veglia, coscienza critica, relazione tra le forme dell’arte e il loro contenuto di verità esistenziale.

di Riccardo Tavani

 

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