Non dimenticare mai. Giovanni Falcone, un magistrato con un coraggio da imitare

Le immagini che si schiantano sulla retina, diventando indelebili, sono in realtà le nostre emozioni più immediate, più belle o più dolorose. Sono quelle immagini che trasmettono direttamente al cuore e al cervello sia la gioia che il dolore. Era il 23 maggio 1992, il giorno in cui la mafia, quella della trattativa con lo Stato, faceva esplodere un tratto intero di strada, a Capaci, per uccidere con sicurezza il giudice Giovanni Falcone.

Il magistrato era da tempo diventato un simbolo di lotta contro una mafia sempre più presente in tutto il tessuto sociale, di cui stava invadendo sottilmente i posti di maggiore influenza. Erano giorni in cui, chi comprendeva i meccanismi che si erano innescati e a cui si stava dando agio di penetrare, doveva essere ucciso. Per Giovanni Falcone e, successivamente, per il magistrato Paolo Borsellino, non poteva esserci scampo. Dovevano morire e dovevano morire in modo eclatante per intimidire tutti quelli che, mettendosi in gioco, avrebbero potuto anche solo tentare di fermare l’avanzata della mafia soprattutto di quella corleonese e stragista.

Il sorriso di Giovanni Falcone, il suo acume, la sua capacità di ricostruire e collegare eventi, fatti e persone apparentemente tra loro scollegati, facevano paura. Era riuscito, con un team di uomini capaci, ad allestire il maxi processo che, con la conclusione avvenuta il 31 gennaio 1992, aveva inferto un sonoro colpo alla mafia. Si riconosceva, in modo definitivo, l’esistenza di un tessuto organico, di un gruppo organizzato, di uno stato nello Stato, con proprie regole e pericolosamente determinato e armato.

La pericolosità di quella mafia fu dimostrata dagli attentati che, nel giro di breve tempo, si succedettero. La determinazione a ricattare lo Stato e a incutere timore ai suoi uomini fu presente già con l’uccisione di Salvo Lima, avvenuta pochi mesi prima dell’attentato al magistrato. Falcone era sopravvissuto, tra l’altro, ad un primo tentativo di ucciderlo, con l’attentato all’Addaura. Eppure si arrivò ad affermare di quell’attentato che non era mai avvenuto e che lo stesso magistrato aveva creato il “caso” . Tanto fango si cercò di gettare addosso a chi era ritenuto il primo responsabile della sentenza definitiva emessa, a fine gennaio, nel maxi processo.

Le istituzioni in tutto questo dov’erano? Non c’erano. Falcone fu lasciato solo, in una solitudine che uccide, descritto come un carrierista, un uomo egocentrico, alla ricerca di una gloria personale.

E lui nel frattempo viveva una vita da recluso, con la consapevolezza di essere nel mirino di un potere dedito al malaffare, senza riuscire a trovare appoggio nella politica, escluse poche eccezioni, amato soprattutto dalla gente, da quella parte di Sicilia che vedeva in lui l’uomo in grado di innescare un processo di riscatto, di cambiamento di una mentalità maledetta.
Era l’esempio da seguire, quello che ai giovani faceva brillare gli occhi di speranza. Un uomo estremamente consapevole del mostro contro cui stava combattendo. Un mostro che poteva nascondersi anche dietro il sorriso di persone apparentemente amiche e proprio per questo più infido.

Ricordarlo nelle scuole, ai giovani che non l’hanno conosciuto, a chi sta vivendo in un periodo che trascura il valore di una vita dedicata alla lotta contro le mafie e il facile guadagno, al riscatto dalla codardia, dovrebbe essere un impegno di civiltà per ogni governo.

di Patrizia Vindigni

Print Friendly, PDF & Email