Il lotto 285 – Capitolo undici

“…Ma dopo una settimana uscì un secondo proclama:

Coinquilini!

Finora non si è presentato nessuno. In tutte le ore in cui non sono costretto a lavorare per vivere non mi sono mai mosso di casa e durante la mia assenza, in cui lasciavo sempre aperto l’uscio della mia stanza, sul mio tavolo c’era un foglio di carta, dove ciascuno che lo volesse poteva scrivere il proprio nome. Nessuno l’ha fatto.”

Franz Kafka

Intanto, seduto in fondo alla sala c’era un giovane che sembrava non seguire la cerimonia ma solo la storia che si stava dipanando sullo schermo. Era in divisa militare, dello stesso colore di quella del morto: azzurra. Teneva una bustina, cioè il copricapo degli avieri di truppa, sotto una delle spalline, sulle quali non c’era nessun segno di gradi,  ma solo due spille dorate che rappresentavano una corolla di foglie di quercia. Era quasi affondato nella poltrona e sgranocchiava un mostacciolo esagonale che sicuramente era stato estratto dalla cassetta portabibite del cameriere in giacca bianca che ora sostava in un angolo in fondo alla sala.

Improvvisamente una figura in divisa che era seduta in prima fila si alzò, rivolgendosi verso la platea ed alzando una mano come per richiedere attenzione. L’aviere scattò in piedi sull’attenti, sistemandosi la divisa sgualcita, avendo riconosciuto nella persona che si accingeva a parlare un suo superiore, forse di grado elevato, visto che sulle spalline e sulle maniche spiccavano tre strisce ricamate e due aquile sulle spalline che lo identificavano come capitano pilota della Regia Aeronautica. L’ufficiale, di cui metà figura, investita dai raggi del proiettore, sembrava anch’essa, per uno strano gioco di luci, far parte del film, di volse verso la bara alle sue spalle e, con una voce quasi soffocata  da un moto di pianto,  cominciò a parlare:

“Abbiamo pensato, io e mia moglie, per rendere più vivo nella memoria di ciascuno il ricordo di nostro figlio, anche se non caduto in guerra, di proiettare questo film sulla nostra gloriosa aviazione nei cieli d’Affrica (disse proprio così, raddoppiando la effe della parola), prima che si abbattesse su di noi quest’altra guerra che stiamo combattendo, non più come alleati dell’esercito germanico, ma a fianco degli alleati che sono intervenuti con un forte esercito, per liberare la nostra penisola dal giogo straniero. Noi militari, pur rimanendo fedeli al Re, daremo tutte le nostre forze affinché questo obbiettivo venga raggiunto.

Mio figlio era entrato nella Regia Accademia come allievo pilota, pervaso da quegli ideali di fedeltà alla patria che contraddistinguono da anni la nostra famiglia. Era un ragazzo schivo e, pertanto, tendeva ad isolarsi dal resto degli allievi, anche se accettava gli slanci di cameratismo da parte loro, che spesso finivano in atti persecutori nei suoi confronti, e in quelli di altre giovani reclute. Erano i tempi nei quali nell’animo dei nostri giovani era stata inculcata l’idea che l’Italia dovesse conquistare nuove terre al di là del mare e, per questo, dovessero essere loro gli arditi che avrebbero compiuto tale impresa. Come nell’Università di quei tempi di austero regime, anche nelle Accademie militari vigeva l’uso da parte di alcuni facinorosi che si facevano chiamare “goliardi”, di perseguitare i nuovi arrivati secondo un codice detto “d’onore”. Venivano cosparsi di pece dalla testa ai piedi e gli venivano gettati addosso sacchi interi di piume, le quali facevano immediatamente presa sul corpo del malcapitato. Veniva poi costretto a correre per i viali dell’Accademia, lanciando rauchi squittii ed aprendo e chiudendo le braccia come fossero le ali di un pinguino. A quella crudele iniziazione, che appunto veniva definita “codice d’onore”,  era praticamente impossibile sottrarsi, visto il grado di anzianità dei componenti del gruppo di tormentatori, adusi a praticarlo sulle reclute appena arrivate. Mio figlio fu uno di quelle vittime.

Ora che l’Accademia, che prima aveva come sede la meravigliosa Reggia di Caserta, per il precipitare degli eventi è stata messa in disuso, è difficile ricostruire i fatti che hanno portato alla morte di mio figlio. Molti dei giovani allievi erano ancora iscritti all’Università ed il mio ragazzo era uno di quelli. Frequentava il primo anno di Lettere e Filosofia ed aveva sostenuto alcuni esami prima di fare domanda di arruolamento all’Accademia. Questi esami, anzi, gli erano valsi un certo punteggio per acquisire ulteriori riconoscimenti, e facilitare così il suo ingresso in quel prestigioso istituto. Perciò, avendo avuto precedenti esperienze nei due campi, sia come studente che come allievo pilota, aveva particolarmente in odio quelle pratiche persecutorie e faceva di tutto per  evitarle. Ma incappò in una masnada di avieri di truppa che si sentivano padroni dell’Accademia,  pur non essendo ufficiali, i quali, in una delle sere in cui i giovani avevano un po’ di libertà, e trascorrevano qualche ora nel fresco dei viali, presero mio figlio e gli praticarono quell’orrendo codice. Lui resistette ma subito fu cosparso di pece e di piume sull’intero corpo e costretto a correre. Poi inciampò e gli furono addosso e lo coprirono di calci e pugni fino a fargli perdere conoscenza. A quel punto sopraggiunse la morte, forse per asfissia, avendo lui ingurgitato una quantità notevole di piume, forse perché quel denso impiastro aveva bloccato la respirazione del corpo, o forse, cosa più probabile, per le lesioni interne seguite all’aggressione.  I responsabili fuggirono e non furono più identificati, quasi certamente perché coperti  dall’omertà dei loro camerati. Ora mio figlio giace in questa bara, e noi, prima di chiuderla, per un’ulteriore omaggio alla salma e perché la sua stupida morte sia ricordata, vi abbiamo gettato una manciata delle stesse piume che furono ritrovate sul suo corpo inerte, che ora vedete svolazzare nell’aria come una bandiera. Grazie per il vostro conforto e cerchiamo di fare sì, tutti insieme, che queste cose tremende non capitino più .”

A quelle parole l’aviere che stava in fondo alla platea si alzò di scatto e, non senza aver prima lasciato il resto del mostacciolo sulla sponda di un sedile, si allontanò, con fare furtivo, dalla sala. Intanto sullo schermo, sopra le immagini di una squadriglia in volo, compariva la parola FINE.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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