Il lotto 285 – Capitolo quarantacinque

Il treno fantasma.

“Nella pallidezza di  quella chiarità mattutina, livida, senza ombre, il treno giaceva, simile a una immane bestia abbattuta, sconquassato, stritolato. (…) Dei brandelli di uomo sparpagliati a caso sull’erba e fra i ciottoli della strada ferrata, riempivano l’anima di un orrore allucinante. Alcuni uomini erano intorno a me: altri vestiti di cappe rozze e scure, andavano avanti e indietro lungo una catasta di legni, di ferramenta e di carne umana, con in mano delle lanterne che i primi chiarori dell’alba facevano parer rosse. Dal cielo, ora seminato di  fredde stelle impallidenti, scendeva come un fiume di silenzio. Solamente qualche gemito soffocato e le voci rauche degli impiegati cercanti un resto di vita fra lo sfacelo solitario al chiarore delle loro lampade fumose.Per tutto intorno a me erano dei corpi infranti e sfigurati”.

Ardengo Soffici. Satana in treno

  Avevo lasciato la guerriglia urbana, fatta di attacchi e fughe, di stenti e di coraggio, di notti insonni o popolate da incubi. Poi una notte avevo fatto uno strano sogno, io che già avevo disseminata di sogni la mia vita recente, come già ho raccontato. Ma questo era un sogno diverso: il sogno dei non-morti.

   Mi trovavo su un treno che viaggiava nella notte. Non sapevo da dove ero partito e dove fossi diretto. Nel mio scompartimento, semivuoto, brillava una luce fioca, bluastra, che non consentiva di vedere distintamente l’interno. I pochi passeggeri erano seduti un po’ distribuiti a casaccio. Io ero seduto in fondo al penultimo scompartimento, vicino al finestrino, senza nessuno accanto. Avevo un po’ sonnecchiato dopo la partenza, ora mi trovavo sveglio a seguire dal finestrino il corteo dei pali della luce che mi passavano davanti veloci. Era intorno a mezzanotte, così almeno segnava il mio orologio da polso col quadrante fosforescente. All’improvviso notai, pochi posti più in là, semicoperta dallo schienale, la figura di un uomo in divisa da ufficiale, stranamente somigliante all’uomo barbuto e dai lunghi capelli che ricordavo di aver visto nel sogno della prigione. Aveva il berretto della stessa foggia di quello che mi era sembrato appartenere ad un militare di un altro paese, di un altro tempo.

   Il treno sferragliava ed il vagone dove mi trovavo traballava sulle rotaie, forse poco sicure per il fatto che stavamo attraversando un ponte i cui piloni ondeggiavano (così almeno era questa la mia sensazione) come spinti da una fiumana vorticosa. Da buon agente segreto, esperto nell’osservare le persone e le cose, mi volli accertare che quello che avevo intravisto fosse lo stesso militare con la divisa discinta che era stato ad osservare attentamente il frustrante amplesso che avevo tentato con la con la giovane Pàl, in quella forzata e terribile detenzione.

    Stavo quindi per alzarmi per raggiungere la figura quando mi sovvenne che la mia compagna mi aveva raccontato, qualche mese prima, che aveva partecipato, e questa volta non in sogno, ad un’azione assieme a un’altra combattente, di nome Pàl, che aveva conosciuto quasi per caso, che l’aveva affiancata in quella che era stata una vera e propria esecuzione ai danni di un ufficiale straniero, in seguito alla quale sia Pàl che lui avevano perso la vita sparandosi a vicenda.

    Ma avvicinandomi lentamente all’uomo e posando una mano sulla sua spalla notai che quel corpo non aveva fatto il minimo movimento, come irrigidito nel ghiaccio, o come colpito da paralisi. Non pensai nemmeno per un momento che stesse dormendo un sonno tanto profondo  da non sentire la mano che lo scuoteva, ma fui spinto a credere che il suo aspetto fosse più quello di una statua o di una figura di cera, perché, guardandolo meglio in viso notai che aveva gli occhi aperti e quelli erano acquosi e vitrei come palline colorate, ma senza sguardo, sui quali si rifrangeva, inquietante, la luce tenue della lampada di servizio. I capelli lunghi e la barba incolta bluastra ora erano imbiancati come quelli di una persona colta da improvviso spavento. Il chepì gli era sceso sulla fronte e la mano sinistra era distesa sul grembo mentre la destra era rigidamente appoggiata all’altezza del cuore e nascondeva una macchia di sangue ormai coagulata, certamente fuoriuscita da un foro di proiettile. Nel chiarore azzurrino baluginante dei globi sul soffitto non riuscivo a distinguere altro, ma non avevo neanche la forza di fuggire via da quel corpo inquietante, quando il treno rallentò sbuffando ed emettendo un fischio prolungato che mi fece accapponare la pelle.

   Guardai fuori dal finestrino ma non vidi alcuna luce che illuminasse la banchina di una stazione. Solo un buio pesto che non faceva scorgere nulla di quella che doveva essere aperta campagna. Il fischio straziante della locomotiva continuava ora ad intervalli regolari, come volesse avvertire i passeggeri di un pericolo imminente. Poi sentii un rombo avvicinarsi sempre più forte, l’aria squarciarsi dal crepitio secco e veloce di colpi di mitragliatrice. Eravamo sotto attacco aereo. Poi, con un boato immane, una bomba cadde sui primi vagoni. Il treno deragliò e si posò su un fianco. Il mio vagone era rimasto fortunatamente illeso, anche se piegato sulla massicciata. Erano le prime luci dell’alba. Del misterioso individuo davanti a me non c’era più traccia. Poi il sogno svanì, lasciandomi in un’agitazione che non avevo mai provato nemmeno nei lunghi mesi di guerriglia.

   Adesso mi trovavo, stranamente anche ora,  sul penultimo vagone di un treno, stavolta più confortevole, pieno di soldati che andavano al fronte e che scherzavano con alcune contadinelle che portavano ceste sovraccariche di provviste. Questa volta sapevo la destinazione del treno, che puntava  verso nord, dove ero stato incaricato di una delicata missione di infiltrazione fra le linee nemiche. Ad un certo punto, essendomi alzato per sgranchirmi un poco le gambe, avevo fatto qualche passo verso l’ultimo vagone quando notai, sulla porta scorrevole che metteva nel buio del passaggio tra una carrozza e l’altra, una targhetta, che immaginavo indicasse il numero progressivo di ciascuna carrozza, ma poi mi ricordai che il vagone era stato agganciato all’ultimo momento, e quindi non poteva far parte del convoglio originario. Così quella scritta mi era parsa incongrua o quantomeno inutile perché non tendeva in alcun modo a rivelare alcunché sull’origine e la funzione di quel nuovo  rimorchio. Era caratterizzata,  ed altro non mi aspettavo nel vederla, solo da alcune lettere e una cifra: Lotto 285! Una sigla che certo non mi doveva essere rimasta impressa nella memoria solo per il suo ovvio e sintetico significato, ma che nascondeva qualcosa di inespresso, qualcosa che rimandava ad altro, per il fatto stesso che era ricorsa frequentemente, in sogno o da sveglio, nel mio percorso avventuroso e sembrava essere la meta finale di quel viaggio, vero o immaginario, che stavo ancora adesso intraprendendo.

   Era una carrozza piombata, di quelle usate per trasportare bestiame, ma da essa non provenivano muggiti o altri versi di animali, solo un mormorio sommesso, come appartenente a quello che non poteva essere nient’altro che un carico umano. La porta d’ingresso al vagone era anch’essa piombata, serrata da pesanti chiavistelli assicurati con un grosso lucchetto. Nell’avvicinarmi avvertii un tanfo nauseabondo di un misto di vomito, urina ed escrementi che proveniva, appena attutito dalla struttura metallica, dall’interno del vagone.

   Poco dopo arrivammo alla stazione di smistamento al di qua del fiume ed il vagone fu staccato e agganciato ad un altro convoglio in partenza per un’ignota destinazione. Nel seguire quella manovra fu allora che rividi, impresso con vernice bianca sulla fiancata del vagone, la scritta: BL 285.

   Allora era proprio quella la sigla identificativa di quel vagone, lo stesso che avevo già visto trasportato dall’autotreno che transitava sulla strada per la capitale nei giorni della liberazione e della fuga del nemico? Allora perché mi ero ostinato a cercare invece un luogo, un edificio, un agglomerato di case con quel numero nei quali “Il Lotto 285” avesse avuto una sua ragion d’essere, e perché ora lo vedevo corretto in “BL 285”? Cosa stava a significare quella che sembrava essere l’abbreviazione di una parola più lunga, forse di una lingua straniera?

  Con questi interrogativi nella mente andai a risedermi al mio posto mentre il treno proseguiva il suo viaggio, oltrepassando il fiume e dopo qualche chilometro raggiunse la prima cittadina di quel territorio dove si sarebbe svolta la mia missione.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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