In Turchia studenti e Lgbt+, sono la vera opposizione a Erdogan
La testimonianza di Yildiz Idil Sen, trans curda e attivista, sulle manifestazioni che da mesi a Istanbul coinvolgono il campus di Bogaziçi e i gruppi Lgbt+, sono la dimostrazione di come la polizia affronti le proteste pacifiche con repressioni e arresti di massa.
Yildiz vive e studia a Istanbul, frequenta il corso di studi Lgbt+ dell’Università di Bogaziçi ed è attiva nella lotta per i pari diritti di genere, oltre che membro del Congresso Democratico dei Popoli (Hdk). Si schiera con le forze filo-curde e della sinistra turca, contro le repressioni del governo del presidente Erdogan.
Racconta: «Sono stata trattenuta in una protesta a cui ho partecipato e messa in cella per due giorni da sola. Alla fine dei due giorni, il procuratore mi ha rilasciato con la condizione di recarmi alla stazione di polizia per firmare, ogni giorno». Sono ormai mesi che manifestazioni pacifiche terminano con arresti e repressioni di massa, contro le persone vengono lanciati lacrimogeni nei migliori dei casi. Tutto finisce con la violenza.
Quanto accade in Turchia è allarmante, le lotte per la difesa dei diritti di genere sono di fatto vietate, represse appunto con la forza. Dal primo gennaio 2021, Melih Bulu è il rettore di una delle più prestigiose università di Istanbul, Bogaziçi.
Gli studenti affrontano la violenza della polizia da quel momento, opponendosi alla sua nomina per la chiusura della Commissione per la prevenzione delle molestie sessuali dell’Università e l’assegnazione delle cariche più importanti a soli uomini.
Il 7 febbraio scorso, la piattaforma Bogaziçi Solidarity annuncia che almeno 560 studenti sono stati arrestati, 25 condannati agli arresti domiciliari e undici arrestati con l’accusa di «degradare o provocare il pubblico all’odio e all’ostilità», «resistere all’autorità politica», «violare la legge sulle manifestazioni» e «resistere per impedire il servizio pubblico».
Appena un mese e mezzo dopo, in Turchia la situazione degenera.
È il 25 marzo e Yildiz è lì a manifestare: «Quel giorno quattro dei nostri amici del club di studio Lgbt+ dell’Università hanno aperto la bandiera Lgbt+ nel campus. È stato il pretesto che ha portato alla tortura di otto dei nostri amici. Il Consiglio unificato degli Studenti (Böm) è subito intervenuto in Università, dando solidarietà per l’accaduto. La polizia è riuscita a impedirlo e i 12 membri della Böm intercettati nel distretto di Bebek – quartiere bene di Istanbul – sono stati poi arrestati e torturati.
Ventiquattro persone detenute sono state prese in custodia e trasferite al tribunale il giorno successivo – continua Yildiz – così i membri del Gruppo di solidarietà studentesca di Bogaziçi hanno invitato tutti i manifestanti e sostenitori a presentarsi alla corte e mostrare solidarietà, c’ero anche io in qualità di attivista Lgbt+. La polizia ha attaccato coloro che aspettavano di entrare, davanti al tribunale: 52 persone sono state trattenute con me sotto tortura. Quarantasette dei 53 detenuti sono stati rilasciati durante la notte, io e cinque dei miei amici siamo stati inviati in tribunale con una richiesta di arresto».
Yildiz dopo quel 25 marzo continua la sua lotta pacifica a sostegno dei diritti di genere, affiancata da associazioni, gruppi e singoli. Ma tutto questo ancora è presente e la Turchia di Erdogan, alla vigilia dei dieci anni dalla firma della Convenzione di Istanbul (sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica), ne prende le distanze. Anzi la Turchia è proprio uscita dalla Convenzione di Istanbul, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ne ha annunciato il ritiro il 20 marzo 2021, scatenando proteste nel paese e la condanna da parte delle istituzioni europee e del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.
Un dittatore che abbiamo cominciato a conoscere negli ultimi tempi e sembra sempre più assurdo che nel 2021 la parità di diritti tra sessi e generi, che dovrebbe essere una certezza, sia invece qualcosa per cui battersi ancora. Fino alla morte.
di Stefania Lastoria