Il Caso Braibanti

“In concomitanza con l’uscita del film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche, ripubblichiamo la recensione del 30 settembre 2020 sul film documentario Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, a cui quello di Amelio deve molto”.

Mezzo secolo fa l’Italia è scossa da un caso giudiziario che cresce anche come scandalo di costume, in totale contrasto con la spinta al rinnovamento dell’intera società innescato dal movimento giovanile del 1968. Un caso perlopiù dimenticato dalla generazione coeva, e totalmente sconosciuto a quelle successivo. La vicenda è oggi meritevolmente ricostruita da un film documentario, drammaticamente bello, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese. Meritevolmente e anche di alta qualità cinematografica. Lo dimostra in maniera sbalorditiva che Il Caso Braibanti, presentato in questi giorni in concorso al prestigioso Salina Doc Fest, vince il Premio del Pubblico, rappresentato quest’anno da una giuria di ragazze e ragazzi di scuole di Lipari e Palermo. Giovani di oggi riconoscono immediatamente in una vicenda sepolta nell’oblio, che origina più di cinquant’anni fa e non in Sicilia, qualcosa che riguarda drammaticamente non tanto il passato, ma il presente, il loro futuro. La qualità di contenuto e forma cinematografica del film è sancita d’altronde anche da un pubblico di tutt’altro tipo. Quello del Premio Cinema in Piazza, assegnatogli alla recente Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Nel 1968, dopo un processo di quattro anni, Aldo Braibanti è condannato a nove anni di carcere con l’accusa oscurantista di plagio. Il plagio sarebbe avvenuto nei confronti di Giovanni Sanfratello, il suo compagno. Con lui Braibanti va a convivere a Roma, appena questi ha raggiunto la maggiore età, che allora è di ventun anni. Alla condanna carceraria dell’imputato corrisponde la chiusura in manicomio della presunta vittima, che subisce anche una lunga cura a base di elettroshock. L’accusa mossa dalla famiglia di Sanfratello è sostenuta pervicacemente, contro ogni evidenza dal Pubblico Ministero. In realtà quella di plagio  è solo una vergognosa foglia di fico giudiziaria per processare e condannare l’omosessualità dei due conviventi. A ben vedere, però, anche il bersaglio dell’omosessualità nasconde qualcosa di ancora più profondo.

Braibanti è un ex partigiano, filosofo, poeta, scrittore di teatro e cinema, critico d’arte, ecologista ante litteram, entomologo, mirmecologo, ossia studioso della vita biologica e sociale delle formiche. Dopo la sua partecipazione alla Resistenza, alla fine della guerra, nel 1947 fonda il laboratorio artistico nel torrione Farnese di Castell’Arquato, in provincia di Piacenza. Una vera e propria comune, un incontro di intelligenze e artisti che attuano libertà e trasversalità del pensiero. Le opere che prendono forma in tale inedito crogiuolo sono ospitate in mostre di molte città italiane, europee e americane. Si mobilitano contro lo scandaloso processo a Braibanti intellettuali, scrittori, artisti, tra i quali Dacia Maraini, Alberto Moravo e Per Paolo Pasolini. Umberto Eco, Giorgio e Marco Bellocchio e politici come Marco Pannella. In appello la condanna è ridotta sei anni, e due anni gli sono condonati per la sua partecipazione alla Resistenza. Sconta alla fine solo due anni.

Il plagio e l’omofobia giudiziaria di quel caso, però, fanno da velo ad altro. Nel film ci sono anche immagini di Alberto Grifi e la testimonianza della sua ultima compagna, l’attrice Alessandra Vanzi. Grifi – scomparso nel 2007 – è uno dei più geniali e rivoluzionari non solo registi, ma protagonisti della possibilità di un’immagine cinematografica sperimentalmente libera, destrutturante le imposizioni e le schematizzazioni finalizzate unicamente al conseguimento del profitto capitalistico. Anche lui sconta dal 1968 al 1969 due anni di carcere in un processo per hascisc. L’omosessualità, la droga sono presi a pretesto giudiziario solo per la loro maggiore appariscenza scandalistica. Ciò che si intende colpire è invece proprio la libertà, la trasversalità connettiva di un pensiero e di una prassi artistica che scardinano dall’interno le strutture della violenza di potere.

E se una giuria di ragazze e ragazzi oggi sente l’attualità bruciante de Il Caso Braibanti, rispetto al loro presente e al loro futuro, è perché minacciate ancora oggi sono quelle possibilità del pensiero e dell’arte. Una venefica nebulosa di intolleranza, omofobia, razzismo, neo millenarismo incombe, infatti, sulla nostra società, pronta a colpire proprio le intelligenze più aperte e sensibili e allo stesso tempo più indifese, quale quella rappresentata dalla figura di Aldo Braibanti. Sottrarla all’oblio, restituirle la parola, partecipare ancora oggi alla sua vicenda ci è necessario. Questo film e i suoi due autori ci aiutano a compiere il primo passo.

di Riccardo Tavani

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