Cine-pillole contro il mal di voto

Brian e Charles. Spassosa favola di solitudine robotica. Brian è uno sgangherato inventore che vive da solo in una casa di campagna nei pressi di un deserto paesino del Galles. Lui partorisce invenzioni in base a ciò che la gente butta via e lui raccoglie. Così un giorno trova una lavatrice scassata, se la carica sul furgone, perché gli viene in mente di costruirsi un robot per vincere la propria solitudine. Solitudine che lo serra in sé stesso, che lo spinge a fuggire le poche persone che gli capita d’incontrare. Come Hazel, una donna del paese, sola anche lei, ma che proprio per questo vorrebbe tanto stringere un rapporto con Brian. Charles, il robot che esce fuori dallo chassis della lavatrice e dalla testa di un manichino trovato in un mucchio di spazzatura, ha una forma bizzarra, sgangherata. È l’altro, l’amico che Brian ha bisogno di avere: dentro e accanto a sé. La piccola comunità paesana è angariata da una famiglia di prepotenti, i quali s’impossessano del robot Charles, con l’intenzione di demolire questi e di umiliare l’alter ego Brian. Il finale ci dice che la storia è inequivocabilmente una favola, che conserva però la grazia di rallegrarci. Feel Good, dicono gli inglesi.
 
Love life. Fallato. Taeko ha un figlio piccolo, Keita, che non ha avuto dal suo attuale marito, Jiro. La loro vita si svolge più o meno normalmente, ossia con problemi che può avere chiunque. Il padre di Jiro detesta la donna, e non dimostra molto slancio neanche verso il bambino. Una ex fidanzata di Jiro, che riappare nel gruppo dei suoi amici, ancora soffre per la loro separazione. Finché l’autore del film non fa morire di botto il ragazzino, attraverso una situazione, una scena che neanche vediamo di lui che scivola in bagno e ci rimane. Una scena stilisticamente banale, senza alcuna verità e necessità esistenziale. Falsa. Fallata. Non si può giocare con tanta superficialità di forma e contenuto con la morte, soprattutto con quella di un ragazzino, e tantomeno in una rappresentazione letteraria, teatrale e cinematografica. Da alzarsi e allontanarsi subito dalla sala. Tanto il resto è tutto tempo perso, anzi, che ci è rubato. Da qui, infatti, si cominciano a scaricare secchiate di troppo facile e gratuita drammaticità. Solo per riempire il vuoto di autentico stile cinematografico. Sì, saranno anche indicati temi della specifica contemporaneità di costume e cultura in Giappone. Ma questo è proprio il modo di allontanarli del tutto alla comprensione di un pubblico internazionale.
 
Il pataffio. Non disprezzabile ma non raggiunge Brancaleone di Monicelli. Tratto da un racconto di Luigi Malerba, si narra dello stalliere Marconte Berlocchio che, sposando Bernarda della nobile casata di Montecacchione, si ritrova sire dello spelacchiato feudo di Tripalle, nel basso Lazio, popolato da rudi villani, tanto ignoranti, quanto ostici. Questi, infatti, guidati da Migone, non vogliono farsi rubare pecore e galline, e soprattutto non sopportano di lasciarsi mettere il gioco al collo e pagare i tributi al nuovo arrivato. Sullo sfondo il nostro presente intessuto di miseria non solo sociale, ma anche di una classe politica di arrivisti, abusivi, infingardi. Il linguaggio è quello dell’italiano ancora maccheronicamente latineggiante di Brancaleone. Le due figure che rappresentano i poli opposti dello scontro sono quelle di Marconte, interpretato da Lino Musella, e Migone, reso da Valerio Mastrandrea. Insieme a quella di Viviana Cangiano, nei panni di Bernarda, la sposa vittima del dissidio di potere, sono anche gli interpreti più bravi. Alessandro Gassman, nel giocare a spingere un po’ troppo la caricatura del frate francescano che interpreta, fa davvero rimpiangere la spavalda spontaneità del padre Vittorio nel Brancaleone di Monicelli. Venendo così a incarnare anche la distanza tra quel film e questo. Il pataffio del titolo è un arcaismo linguistico di epitaffio.
 
Margini. Non decolla. Un trio di ragazzi punk tenta di smuovere la mortifera scena musicale di Grosseto, svenandosi di soldi e combinandone di ogni colore per far arrivare in città la band americana Defend. Anche se i tre attori sono del tutto dentro, ossia molto credibili, nei comportamenti e nel linguaggio punk, la storia non decolla mai veramente. Rimane alla superficie, all’esterno delle motivazioni più profonde di un movimento musicale, culturale, di costume che segna un’epoca. Nei titoli di coda appare una sfilza di nomi di band e situazioni punk italiane che sostengono il film.
 
Memory. Action sopra la soglia di qualità. Remake del film belga Memorie di un assassino, 2003, e riambientato al confine tra Messico e Usa. Alex è un killer super efficiente. Il suo stile è sintetizzato dal messaggio telefonico che invia ai suoi mandanti dopo ogni riuscitissima eliminazione: finito prima il lavoro, torno a cena. Ha ormai una certa età, però, e anche un principio di Alzheimer con vuoti di memoria: vuole ritirarsi. Gli commissionano, strapagandolo, un ultimo lavoro con due obiettivi, neanche troppo difficili per lui. Il primo, infatti, lo esegue con la solita rapidità, spietatezza ed efficienza, portandosi via da una cassaforte quello che doveva recuperare. Il secondo obiettivo, però, è per lui inaccettabile: ammazzare una ragazzina di tredici anni avviata nel giro della prostituzione minorile. Da killer si fa così giustiziere, svelando la classica figura di molto cinema americano del figlio di puttana sì, ma con qualcosa di buono dentro. Memoria e giustizia sono una la faccia dell’altra, soprattutto quando si ha a che fare con le sfere intangibili della ricchezza e del potere. Il finale trova l’espediente narrativo per non coinvolgere direttamente l’immacolata immagine di polizia e procure yankee, per ristabilire l’irrevocabile equilibrio della giustizia, seppure in maniera inquietante. Con Monica Bellucci e un pur sempre grande Liam Neeson.
 
Il signore delle formiche. Riuscito a metà. Parlando del film di Amelio si dovrebbe innanzitutto rendere omaggio – e avrebbe dovuto farlo lo stesso regista – al documentario del 2020 Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese. Film di notevole valore cinematografico e politico-culturale, che ha collezionato una caterva di premi, a cominciare dal Nastro D’Argento, quale miglior documentario del 2021. Su quel documentario riproponiamo a parte la nostra recensione di allora. In quanto all’attuale Signore delle formiche, esso è un film riuscito solo a metà. Prevalentemente di un didascalismo che a tratti si fa schematismo, con preziosi sprazzi di vera luce d’arte cinematografica che non riescono però a segnare l’intero carattere dell’opera, la cui destinazione per la televisione prende troppo il sopravvento. Luigi Lo Cascio riesce a imprimere al suo personaggio anche alcuni tratti psicosomatici di Pasolini, e questo rende più vivida e attuale la stessa vicenda, purtroppo sepolta nell’oblio della patria storia. Oblio che hanno rotto per primi Giardina-Palmese, ma che indubbiamente questo film di Amelio riesce a portare su un palcoscenico e schermi più vasti e più visti.
 
Maigret. Giallo d’atmosfera. Genere polar, ossia policier-noire, tratto direttamente dal romanzo di Simenon Maigret e la giovane morta. 1954. Un’anonima ventenne viene ritrovata per strada morta in abito da sera con numerose coltellate. Non è che il film e Maigret ci impieghino molto a mettersi sulla strada investigativa giusta. Non tanto perché la soluzione del giallo è stata già scritta ormai da tempo. Ma perché il regista Patrice Leconte vuole soprattutto raccontarci un senso della verità, non solo poliziesca. E lo fa rendendo un’icona esistenziale la figura dell’ispettore francese. Gli riesce attraverso un grande, non solo fisicamente Gerard Depardieu. Un loden abbottonato e un cappello a falde larghe sempre addosso (meno che in una scena in cui si rade la barba), nell’atmosfera piovosa, umida, caliginosa di Parigi. Ossia una corazza inarrestabile nella nebbia della menzogna e della cupidigia umana. Indolente, malato, inappetente, Maigret è ormai anche sopra il giudizio d’ogni umano vizio, ma non smette, non può smettere di fiutare e arrivare alla verità. Ossia di tessere,  testimoniare il filo della giustizia continuamente occultato, negato dalla follia esistenziale umana. Produttore John Simenon, figlio di George Simenon, lo scrittore francese letterariamente sovrastato dal suo stesso personaggio Maigret. 
 
L’immensità. Anche se non immenso convince. Madre, padre, due figlie e un figlio a Roma anni ’70. Emanuele Crialese, il regista del film, mette in forma cinematografica la sua vicenda esistenziale. Nasce come Emanuela, ossia è una bambina, ma presto sente dentro di essere Emanuele. Così nel film il personaggio di Adriana, la figlia più grandicella, abbrevia il suo nome in Adri, per poi meglio mutarlo in Andrea e presentarsi così a chi non la conosce. Sullo schermo, però, i tormenti interiori, nascosti di Adri/Andrea si intrecciano con quelli più visibili di sua madre Clara. È lei il sole, la pulsione erotica di bambino, figlia/figlio, che cerca di difenderla dalle offese del mondo esterno e soprattutto da quelle di suo padre Felice, che la tradisce, la maltratta, la umilia, la conduce alla nevrosi. La parte iniziale del film è stilisticamente abbastanza stentata, e di questo ne risente anche la recitazione delle protagoniste Penelope Cruz e Luana Giuliani. Lentamente, però, la spola tra la vicenda materna e quella figliale si dipana con maggior respiro narrativo, crescendo anche cinematograficamente. Mito canoro di Adriana è Adriano, ossia Celentano, che domina i sabato sera musicali della TV italiana, insieme a Rafaella Carrà e Patti Pravo. Clamorose due scene con questi tre che Adri/Andrea rielabora nella sua visione di sé stessa e di sua madre.

di Riccardo Tavani

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