Continuazione d’impero a mezzo bara
Parafrasando un famoso aforisma del generale von Clausewitz, si potrebbe dire che l’eco mediatica mondiale della morte della Regina d’Inghilterra è la continuazione dell’impero con altri mezzi. Ma sono tutte le quotidiane cronache familiari della famiglia reale inglese e il relativo aureo gossip a esserlo. Ricordiamo che l’ossatura del vecchio impero britannico rimane ancora configurata nel Commonwealth delle Nazioni, costituito da quei 56 Stati nel mondo che furono ex colonie britanniche. Al vertice di tale istituzione sedeva proprio la Regina Elisabetta II e ora suo figlio Re Carlo III. Commonwealth, benessere comune, termine coniato nel 1653 da Oliver Cromwell, guida della rivoluzione che pose fine non alla monarchia britannica, ma soltanto al suo governo diretto. Governo che fu affidato al Parlamento, dando così origine a quella monarchia costituzionale e parlamentare, ancora oggi non solo in vigore, ma viva e vegeta in Gran Bretagna.
Per United Kingdom, Regno Unito, s’intende l’entità politica che tiene insieme – ancora oggi – Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. La sua denominazione internazionale è oggi Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (prima di tutta l’Irlanda, anche quella resasi indipendente con capitale Dublino). Il significato di Commonwealth, per i rivoluzionari di allora, era questo: il dominio ai fini del benessere comune di tutti gli Stati a esso assoggettati. Ossia i ribelli repubblicani, vincitori sui sanguinosi campi di battaglia militare contro la Monarchia, mantengono la Corona, proprio quale emblema non solo simbolico, ma fondativo costitutivo di un dominio centrale interno verso l’esterno.
Il British Empire, l’Impero Britannico, si espande su questa sua vera e propria categoria ontologica, elevata a tratto interiore, profondo dello stesso carattere nazionale britannico. Un’espansione che arriva a dominare un mezzo miliardo di persone sparse in tutto il mondo, a cui razziare terre, risorse, esistenze. Non a caso God Save the Queen/King!, Dio salvi la Regina/il Re!, è stato e l’inno ufficiale del British Empire. Invocazione che abbiamo sentito tuonare anche in questi giorni davanti a Carlo III da parte dei parlamentari e governati inglesi. Il lungo risuonare di campane e cadenzare di tamburi a lutto su tutti i media e social del mondo per la scomparsa di Elisabetta II, dunque, è – in senso vero e proprio – la continuazione dell’Impero con altri mezzi. E questo anche se Elisabetta II il titolo d’Imperatrice non ha potuto più ereditarlo, inseparabili sulla sua bara spiccavano durante il corteo funebre la corona, il globo e lo scettro che ancora lo rappresentano. Perché è l’intero carattere nazionale e popolare inglese a sfilare per elevare il suo interiore: God Save the Empire!
A svelarsi in questa invocazione, però, è soprattutto il carattere della democrazia in sé, ossia non solo inglese, ma come categoria universale della politica. Essa, infatti, si costituisce innanzitutto come un concetto puramente interiore. E questo fin dalla prima forma di democrazia ad Atene, nell’antica Grecia del IV sec. a. C. Democrazia che era riservata ai soli cittadini ateniesi, definizione totalmente interna, perché escludeva donne, schiavi, persone delle colonie asiatiche e mediterranee. Ossia la democrazia è la delimitazione di uno spazio politico-materiale privilegiato interno, verso uno esterno, messo al servizio del benessere di quello spazio. Perché non c’è forza, potenza che possano proclamarsi tale senza ergersi su una debolezza da assoggettare e su ci elevarsi. Le efferatezza dell’Impero Britannico, anche sotto il lungo regno di Elisabetta II, sono completamente obliate, occultate, perché esse sono state al servizio dello splendore democratico interiore della democrazia monarchico-parlamentare inglese. Ciò che conta è l’interno privilegiato, non l’esterno dominano e sfruttato.
Facciamo il paragone con la monarchia italiana. Essa si è resa strumento di un disegno antidemocratico, dittatoriale intestino per ricostituire il sogno di un impero romano esteriore. Per questo è rotolata nel fango della storia e i suoi discendenti sono oggi poco più che delle provinciali macchiette d’avanspettacolo e gossip. Sotto la fascinazione tutta italiana per la funebre telenovela imperiale inglese pulsa l’inconscio collettivo di questa vergogna storica nazionale da riscattare. È l’autobiografia di una nostalgia nazionale di fronte ai fasti di quella che Mussolini continuava a definire laperfida Albione. A essa – tuonava il duce – dobbiamo strappare quello che ci spetta: il nostro posto al sole, il nostro impero. Di quest’ultimo ci rimane soltanto il tratto contemporaneo di ogni altro impero: il riversarsi dell’esterno verso l’interno, in forma di epocali spostamenti immigratori di massa. Un posto al sole, invece, è titolo di una soap opera che da ventisette anni continua a friggere imperterrita sui teleschermi nazionali.
Certo, anche l’Impero Britannico non c’è più, nonostante la sopravvivenza esteriore del Commonwealth. Continua, però, a sopravvivere il suo impero linguistico e culturale: tanto che anche la Comunità Europea ha l’inglese come una delle sue lingue ufficiali, nonostante l’Inghilterra non ne faccia più parte. Nel suo celebre Manifesto di Harvard, Winston Churchill nel 1943 sentenziò: “Gli imperi del futuro sono imperi della mente”. Era un patto di estensione imperiale della lingua inglese proposto agli americani. Questi lo sottoscrissero, lo potenziarono, facendone sbarcare tutti i prodotti insieme alle loro portaerei, bombardieri, basi missilistiche e ammassi di merci esportate. E, per dirla nella lingua del sommo Dante: come vedi, ancor non m’abbandona.
di Riccardo Tavani