Il giorno dei ricordi

Sabato 10 febbraio si è celebrato il “Giorno del Ricordo”, istituito venti anni fa per ricordare le vittime della tragedia delle foibe e l’esodo giuliano dalmata degli anni successivi.

La presidente del Consiglio Meloni si è recata al monumento di Basovizza dando all’evento una notevole solennità e risonanza mediatica. Nel suo discorso ha chiesto perdono a nome delle Istituzioni repubblicane per il “colpevole silenzio che per decenni ha avvolto le vicende” ed ha ricordato i profughi giuliano dalmati che rinunciarono a tutto pur di “rimanere italiani” e non perdere la loro “identità” (sono sue le parole tra virgolette).

A proposito di identità, però, sarebbe necessario ricordare anche qualcos’altro, giacché questo giorno è dedicato al ricordo.

Nel 1941 Italia e Germania aggredirono e invasero la Jugoslavia. All’Italia, in particolare, furono assegnate la Provincia di Lubiana e il Governatorato Dalmata.  

Il regime fascista fece di tutto per cancellare l’identità delle popolazioni non italiane con una politica di “italianizzazione”: le lingue croata e slovena furono bandite dalle scuole (ve ne erano centinaia per le popolazioni non di lingua italiana) e dalla vita civile; i nomi dei luoghi e delle persone furono italianizzati.

Per combattere i movimenti di resistenza fu adottata una repressione spesso sfociata in crimini di guerra. Un funzionario civile italiano così scrisse all’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana: vi furono “fucilazioni in massa e a casaccio”, mentre interi villaggi venivano incendiati “per il solo gusto di distruggere”. “La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi”. Un alpino, che aveva partecipato alle azioni di rappresaglia, ebbe a scrivere: “Noi siamo scioccati e inorriditi dalle grida dei soldati e dal terrore degli abitanti impotenti… Questa è la prima indimenticabile esperienza di una realtà che ci fa vergognare come uomini”.

Ad esempio, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume, tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (91 persone). La restante popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate.

Un regime consimile fu attuato anche nelle zone di pertinenza tedesca e degli ustascia croati. Se lo slogan del generale Robotti era “qui si ammazza troppo poco”, più di un milione di jugoslavi morirono negli anni dell’occupazione e della guerra partigiana. 

Tutto questo per la smania di conquista dell’asse italo-tedesco, che nasceva da quel folle misto di razzismo, imperialismo e nazionalismo esasperato, insito nelle ideologie fascista e nazista. Se già l’aggressione militare fu un atto di ingiustificabile barbarie, tale deve essere considerato anche il successivo regime d’occupazione dell’intera Jugoslavia. In effetti, anche sui crimini di guerra compiuti in quel periodo c’è stata una congiura del silenzio, che ancora perdura.

Ciò nulla toglie al giudizio sugli efferati comportamenti dell’esercito di liberazione jugoslavo e del regime titino nei confronti delle popolazioni italiane che vivevano nella regione. Sia chiaro che non è lecito rispondere alla barbarie con altrettanta barbarie. 

Tuttavia, neanche è lecito ricordare solo i pezzi più convenienti di un periodo storico. Il regime fascista italiano si era comportato in maniera indegna di un popolo civile, né più né meno dei partigiani del maresciallo Tito. Anche questo fa parte del ricordo.

Quanto alla “congiura del silenzio” e all’indifferenza nei riguardi della tragedia delle foibe, anche qui ci sarebbero da ricordare alcune cose. 

Nel 1975 il Presidente della Repubblica Giovanni Leone si recò a rendere solenne omaggio presso il sito di Basovizza; fu imitato da Cossiga e da Ciampi negli anni successivi. Nel 1961 fu inaugurato sulla via Laurentina il monumento ai caduti giuliani e dalmati. Nel 1980 il Ministero dei Beni Culturali dichiarò il pozzo minerario di Basovizza (l’unica foiba situata nel territorio italiano, nei pressi di Trieste) “sito di interesse particolarmente importante” e nel 1992 il Presidente Cossiga lo dichiarò monumento nazionale, proprio perché quegli eventi non fossero dimenticati. Nel 2007 è stato inaugurato il Sacrario della Foiba di Basovizza, con l’annesso Centro di documentazione. Questi e altri eventi di importanza minore testimoniano che in realtà le foibe non sono state dimenticate; sebbene qualcuno potesse desiderare che il ricordo di quegli eventi avesse una maggiore enfasi (ogni parte politica vorrebbe porre l’accento su un aspetto peculiare della storia) difficilmente si può parlare di “congiura del silenzio”.

Sempre nei pressi di Trieste è situata la risiera di San Sabba, anch’essa monumento nazionale e sede museale. Fu l’unico campo di concentramento e sterminio presente nel territorio italiano (all’epoca Repubblica Sociale di Salò), dove transitarono oltre 8000 prigionieri e furono uccisi da 3000 a 5000 (i numeri sono sempre incerti in questi tragici conteggi) tra italiani, croati e sloveni: partigiani, ebrei e testimoni di Geova. Era dotato, come ogni campo che si rispetti, di un forno crematorio dove bruciare i corpi dei condannati, ma anche dove alcuni prigionieri (tra cui in particolare si ricordano due donne partigiane) furono bruciati vivi. Responsabile del campo fu l’ufficiale delle SS Odilo Globočnik, nato a Trieste, veterano dei campi di sterminio e già responsabile della morte di 1.500.000 ebrei. 

Non lontana da Basovizza, la risiera è un altro terribile luogo in cui sostare per ricordare. 

Anche i profughi giuliano dalmati meritano un ricordo attento e corretto. Alcuni esponenti della sinistra (del PCI e dei sindacati dei ferrovieri) li accolsero male al loro arrivo in Italia, tacciandoli di fascismo. E poi, come sempre quando vi è una consistente immigrazione, serpeggiava l’idea che i profughi potessero “rubare il lavoro agli italiani”. Ciò nonostante, circa 300.000 profughi (anche qui i numeri sono incerti) non solo di origine o lingua italiana, ma anche slovena e croata furono accolti, trovarono lavoro ed ebbero una casa. Lo Stato italiano provvide ad un parziale indennizzo dei beni perduti, poiché la Jugoslavia considerò i beni confiscati agli esuli quale indennizzo di guerra. Nonostante l’Italia dell’immediato dopoguerra fosse ancora povera, con diverse misure legislative si cercò di soddisfare le necessità dei profughi e si provvide a riservare loro il 15% degli alloggi popolari e il 5% dei posti di lavoro. Si sa, le nostre Istituzioni non sono dei modelli di efficienza, ma certo non si voltarono dall’altra parte né dimenticarono gli avvenimenti che avevano causato l’esodo.   

Personalmente non ho mai avuto l’impressione che l’intera vicenda fosse stata dimenticata. Sta di fatto che per me il ricordo è doppiamente doloroso: per le vittime della barbarie titina e di quella guerra dissennata e maledetta, ma anche per il fango che Mussolini e i suoi tirapiedi fascisti hanno gettato sulla storia della nostra Patria: Fango che, purtroppo, fa parte della nostra identità.

Cesare Pirozzi