Per quanto voi vi crediate assolti…

Per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti. Non è la canzone di De Andre, è il finale di “Assassinio nella cattedrale” in scena al Quirino di Roma per la regia di Gugliemo Ferro con Moni Ovadia e Marianella Bargilli.

Il capolavoro di Tomas Stearns Eliot è qualcosa di più di uno spettacolo teatrale. È uno stato d’accusa contro la tirannia, la prepotenza, il potere, la guerra e soprattutto la sottomissione delle donne. Uno spettacolo rivoluzionario in grado di denunciare le violenze e le sopraffazioni attuali, con un linguaggio classico.

T.S. Eliot uno dei più grandi poeti del novecento, è stato un intellettuale fuori dagli schemi, un artista, un dandy della drammaturgia, in grado di rinnovare il teatro rimanendo ancorato alla classicità.

Assassinio nella cattedrale riesce ad essere tradizionale nella grande innovazione dei contenuti recitati, su un palcoscenico con una scenografia semplice ma superlativa, due enormi colonne di fianco ad un portale gotico. Il termine tradizione, per Eliot, ma in questo caso per il regista Ferro, incorpora una sconvolgente attualità scardinata dalla atemporalità storica, intrisa di un carattere speciale e complesso.

Questa complessità speciale è stata resa fruibile dalla magistrale interpretazione delle attrici e degli attori, in grado di esprimere un ambiente contemporaneo pur nei costumi e movenze classiche. La forza motrice di Moni Ovadia e Marianella Bargilli trainano il poema trasformato in atto di denuncia contro ogni violenza e ogni guerra. Il fascismo, il nazismo, le guerre e i massacri, Gaza in primis, sono fili riannodati sul palco con una capacità recitativa impensabile. Niente è fuorviante, il teatro classico è teatro poesia, in quanto teatro di accusa ai tempi di Eliot e ai nostri tempi.

L’opposizione ai regimi autoritari ci riporta ai tempi moderni e contemporanei, la metafora poetica diviene critica al regime nazifascista, alle false democrazie, complici degli orrori della fame e della guerra in ogni luogo del pianeta.

L’unica speranza di salvezza, ci dice Eliot-Ferro, sono le donne, uniche sul palco a riflettere sulla quotidianità fatta di bisogni e necessità. Le donne sono mamme, sono sorelle, sono mogli, sono amiche, ma sono soprattutto donne che rivendicano il loro ruolo di protagoniste della pace. Contano i raccolti. Contano i frutti. Cantano genuflesse per sentirsi vicine al creato, ma non per questo sottomesse. Le donne uniche voci che cantano in verità della verità: vivendo e in parte vivendo. Un ritornello più volte recitato per ribadire la consapevolezza della loro condizione alla quale sono costrette da una società maschilista e violenta. Loro, le donne sono l’integrità morale, sono giuste, sono sagge, sono umili, sono donne.

Partendo da un fatto realmente accaduto, l’assassinio dell’Arcivescovo nella Cattedrale di Canterbury nel 1170, il regista Gugliemo Ferro trasforma in metafora poetica l’opera di Eliot, utilizzando il coro sul modello del teatro greco, con versi brevi e ritmati con una metrica da versetto biblico.

Ma il finale lascia il pubblico attonito ed esterrefatto, i tre assassini, con abiti attuali, tipo le iene di Tarantino, escono dal palco, si avvicinato e lanciano un atto d’accusa alla società intera, in quel momento rappresentata dagli spettatori, facendoli sentire responsabili dell’assassinio. Il pubblico colpevole di non aver impedito l’orrore della uccisione violenta dell’Arcivescovo o di non aver impedito e fermato le guerre che ogni giorno causano migliaia di morti: per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti.

Claudio Caldarelli

 

 

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