Nessun posto al mondo
Con il suo secondo lungometraggio, Nessun posto al mondo, Vanina Lappa si dimostra tra le migliori documentariste non solo italiane, ma internazionali. Eppure, l’ambiente, i personaggi, i temi delle sue due opere sono un’unica nicchia antropologica incastonata tra i monti del Cilento meridionale. Il suo primo lavoro del 2016, Sopra il fiume, è ambientato a Caselle in Pittari, provincia di Salerno, e ha come protagonista Angelo Pellegrino, un paesano dilaniato tra la ricorrente spinta a fuggire e la forza ancestrale a restare. Tra lo stesso comune di Caselle e quello di Sanza, attorno ai boschi nativi e dolorosi del Monte Cervati, è ambientato pure Nessun posto al mondo. E siccome nei piccoli paesi spesso girano gli stessi cognomi, pur senza parentele dirette, anche il protagonista di questa nuova storia è un altro Pellegrino, Antonio Pellegrino, pastore e allevatore, straniero dilaniato dentro le proprie stesse radici umane e naturali.
Transumare: attraversare, transitare sul suolo. Dal latino trans, attraverso, oltre e humus, suolo, terreno. La pratica pastorizia della transumanza – ossia lo spostamento dei greggi e mandrie da una zona all’altra, nelle diverse stagioni dell’anno – nel 2019 è stata inserita dall’Unesco nella lista dei Beni Immateriali dell’Umanità. Ha più che una mera assonanza con il transumanare, l’andare oltre l’umano di Dante nel I canto del Paradiso. Il Monte Cervati, con i suoi 1.899 metri, è il rilievo più alto della Campania, e da tempi remoti i pastori e bestiame vi giungono anche dalla Basilicata. Gravitante nella provincia di Salerno, amministrativamente ricade sotto il Comune di Sanza, a soli una dozzina scarsa di chilometri e un quarto d’ora d’auto da Caselle in Pittari. Fin da ragazzi vi portano le loro vacche anche Antonio Pellegrino e un suo fratello, i quali hanno piantato pochi pali e travese lignee di recinzione per contenerle. A causa di un allevatore inadempiente e che non si è potuto ricondurre al rispetto delle norme, il Comune di Sanza ha emesso una delibera che impone una tassa di 200 € a capo per chi porta da fuori le proprie bestie. Di fatto ad Antonio e molti altri è dolorosamente imposta l’interdizione al diritto naturale, nativo alla transumanza, aggravata dall’obbligo dello smantellamento delle pur labili recinzioni apprestate.
È un fatto estremamente localizzato, ma che nasconde una radice antropologica eminentemente universale. L’essere spossessato dalla relazione, dai legami con ciò che costituisce il fondamento della stessa propria esistenza. È una condizione insieme atavica ed estremamente attuale nel mondo amministrato che oggi viviamo. Anzi, sembra una sua peculiare caratteristica epocale. È talescosceso versante che intende svelarci, mostrarci Vanina Lappa. Per questo attrezzatura e maestria tecnica non possono limitarsi a riprodurre, documentare da fuori, ma devono direttamente produrre, far esplodere da dentro le immagini e le voci di questo dramma. L’avvicinamento della sua macchina da presa ai volti non solo umani, ma anche animali e dei luoghi è immediatamente interno, interiore, intimo. L’elemento ottico-retinico, ossia la limitata focale visiva biologica e quella meccanica degli obiettivi da ripresa, viene squarciato, allargato a uno sguardo d’insieme politico, che agglutina insieme la polis, la città-stato boschiva inseparabilmente umana, animale e ambientale. Tale interiorità si è via via approfondita durante i quattro anni di riprese e dunque permanenza, conoscenza, reciproca ri-conoscenza, mutuo scambio di comprensione e sintonia tra autrice e protagonisti.
La successioni delle sequenze d’ansia, rabbia, dolcezza dei protagonisti è intercalata da riprese statiche dei profili e dei silenzi montani che restituiscono la dimensione del respiro universale che ci avvolge. E così come in tanti ci sentiamo con Antonio in nessun posto al mondo, proprio la voce, le movenze sue e degli animali, fanno riemergere la percezione intangibile di un vasto sottosuolo poetico-esistenziale interiore. Anche la sua immedesimazione con la numerosa famiglia di cani e capre, che sono a bordo o seguono il cassone scoperto, del suo pick-up proviene da un indistruttibile legame atavico originario. Il capro, l’animale sacro a Dioniso, in greco antico è tragos, termine che da cui deriva il termine tragedia, ossia uno degli atti poetico-filosofico-teatrali più cruciali dell’antica Grecia che si irraggia ancora fino a noi e disseminandosi ha plasmato nei secoli etica, cultura, politica, psicologia, società. Antonio Pellegrino è si questo scorbutico, imprevedibile caprone cilentano di montagna. Ma proprio da questa sua natura scaturisce la trasparenza dello sguardo e della coscienza. E l’autrice del film assegna ai mezzi peculiari del cinema di qualità il compito di restituirci tutto il rispetto, la dignità del suo sofferto scontro con la realtà.
Similmente, le inquadrature di luce vivida e contrastata del giorno, sono alternate a visioni crepuscolari, o già nella notte piena, come nell’annuale processione in cui animali e umani accompagnano la Madonna sul monte, confondendo nell’alone lunare le proprie sagome e grida. Al contrario, però, della celebre notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere, qui torna l’eco dello stesso stupore cantato nel VII secolo a. C. dal Notturno di Alcmane, anch’esso all’origine della nostra civiltà.
“Dormono le cime dei monti/e le vallate intorno, i declivi e i burroni;/ dormono i rettili, quanti nella specie/ la nera terra alleva,/ le fiere di selva, le varie forme di api,/ i mostri nel fondo cupo del mare;/ dormono le generazioni/ degli uccelli dalle lunghe ali”.
È in questo suo Nessun posto al modo, che Vanina Lappa ci invita come totalità cosciente e senziente a ritrovarci.
Riccardo Tavani