Una riforma ingannevole e pericolosa
La riforma del “premierato forte” è ben avviata all’approvazione del Parlamento – salvo sgambetti dell’ultim’ora da parte degli alleati – e rischia di superare anche il successivo referendum confermativo, ad onta degli sfavorevoli precedenti delle riforme costituzionali.
Nonostante il “chissene”, con cui la Meloni cerca di sdrammatizzarne l’esito (forse con finalità scaramantiche) il fatto stesso di averla definita “la madre di tutte le riforme” ci fa capire quanto essa caratterizzi l’ideologia politica di FdI.
Il progetto ha dalla sua due vantaggi. Innanzi tutto gli slogan con cui è presentato, sebbene ingannevoli, sono facili e convincenti; e poi la maggioranza può fruire di una forte pressione mediatica, esercitata dalle sei maggiori reti televisive (Rai e Mediaset) e da un buon numero di testate giornalistiche molto fedeli.
Per contro, l’opposizione non può avvalersi di un altrettanto forte schieramento di media e non può opporre agli slogan altro che dei ragionamenti: più sensati, sì, ma anche più noiosi e meno incisivi. Gli esperti di comunicazione sanno bene che due o tre parole suggestive sono più potenti di un discorso articolato.
Frasi come “elezione diretta del premier” e “stabilità di governo” sono facilmente comprensibili e di sicuro impatto; ma spiegare che la riforma si basa su assunti falsi e nasconde contenuti sostanzialmente anti democratici, questo è indubbiamente più difficile ed oltretutto noioso.
È necessario, pertanto, decodificare gli inganni e i pericoli contenuti in questa “madre di tutte le riforme”, che è l’unico modo di ridurne la suggestione.
La “madre di tutte le bugie” è che la riforma serva a garantire la stabilità di governo, che non è assolutamente vero.
Prendiamo ad esempio il governo attuale. Ha una buona maggioranza parlamentare, che dovrebbe garantirgli una tenuta di legislatura. L’unico rischio è che una quota di parlamentari possa in qualche momento e per qualche motivo negargli la fiducia. Con e senza la riforma, non c’è alcuna differenza: il governo è stabile se gli alleati sono coesi, ma può cadere se non lo sono. Ciò che, infatti, è successo nell’unico precedente al mondo di premierato elettivo, quello israeliano.
In altre parole, a dare stabilità al governo questa riforma non basta.
Al contrario, sarebbe sufficiente una legge ordinaria, dall’iter più agevole, sicuro e veloce, che introduca la cosiddetta sfiducia costruttiva: è l’efficace sistema con cui la Germania tutela da decenni la durata dei suoi governi, anche di coalizione. È una misura sperimentata e sicura, che non altera la Costituzione e potrebbe essere approvata, verosimilmente, anche con il contributo delle opposizioni.
Riassumendo: per garantire la stabilità dei governi non c’è alcun bisogno della riforma del premierato che, anzi, non garantisce niente.
Ma la “nonna di tutte le bugie” (almeno nel senso che è più vecchia) è che bisogna finalmente fare in modo che il presidente del consiglio sia espressione della volontà popolare. In realtà si sapeva benissimo che la Meloni avrebbe governato, avendo vinto le elezioni. Come lei stessa dice sempre, è stata scelta dagli elettori. Se vogliamo, proprio lei è la dimostrazione vivente che di questa cosiddetta riforma non ci sarebbe bisogno. Dal ‘94 in poi (cioè dopo l’abolizione del sistema proporzionale) è sempre stato chiaro chi avrebbe governato, in rapporto al risultato elettorale.
È altrettanto vero che ci sono stati diversi “ribaltoni”; ma questi sono evitabili con un paio di misure facili facili, per le quali non serve prendere a calci la costituzione. È sufficiente, come si diceva, la “sfiducia costruttiva”, possibilmente associata a una buona legge elettorale che, è inutile dirlo, dovrebbe essere maggioritaria: sia perché più facilmente determina una maggioranza, sia perché fu a suo tempo voluta da un referendum popolare.
E già, vogliamo di nuovo dimenticare che così si era espressa la “Nazione”? Sia il porcellum che il rosatellum sono brutte leggi elaborate nei palazzi e mai avallate da una consultazione popolare.
Ma la volontà popolare, che è invocata per eleggere un premier, chissà perché non conta niente riguardo alla legge elettorale.
La terza, mastodontica bugia è che la riforma era contenuta nel programma elettorale della destra.
Da qui derivano due corollari irrinunciabili. Il primo è che la riforma ha il sostegno degli Italiani, dal momento che hanno votato questa maggioranza; il secondo è che le promesse elettorali si devono mantenere.
In realtà nessun programma elettorale vi faceva cenno: si parlava, infatti, di una riforma in senso presidenziale, che è cosa diversa, meno ingannevole e più onesta. Il premierato forte non è mai stato promesso agli elettori, né da questi avallato.
La promessa elettorale era il presidenzialismo e, questa sì, è stata tradita. Ma alla chetichella, facendo finta di niente, cambiando le carte in tavola senza dir niente.
Dunque, gli elettori che hanno votato FdI (che poi sono circa il 27% dei votanti, pari al 18% degli italiani) non hanno mai voluto, avallato e neanche conosciuto questo progetto di riforma. E infine sono stati fregati.
Non è difficile, come si vede, verificare che i motivi addotti dalla maggioranza altro non sono che balle.
E qui ci troviamo di fronte a un fatto inedito, persino per il nostro strano mondo politico: la maggioranza di governo vuole una riforma che in campagna elettorale non ha mai dichiarato di volere, e la sostiene con ragioni del tutto prive di fondamento.
È dunque lecito il sospetto che le vere ragioni siano altre e che, forse, siano inconfessabili, visto che non vogliono dirle.
Per esserne certi, bisognerebbe entrare nella testa dei nostri spericolati legislatori, ma non credo che sarebbe un’esperienza gradevole. Possiamo, però, ragionarci sopra e fare qualche sensata considerazione.
La prima è che questa sciagurata riforma non può reggersi senza un congruo premio di maggioranza. Lo schieramento dei partiti è, infatti, troppo frammentato perché un leader possa avere più del 28-30% di voti. Neanche una coalizione può essere certa di superare il 50%, come dimostra quella attuale, che ha raggiunto il 44% e non governerebbe senza le strane alchimie del rosatellum.
Ma un premier senza maggioranza, anche se eletto dal popolo, non è né forte né stabile.
È abbastanza evidente, quindi, che il successo della riforma è condizionato dal tipo di legge elettorale che la affiancherà. Ma la maggioranza ha già stabilito che questa non sarà contenuta nella legge di riforma. Così che, quando si andrà al referendum, si dovrà bocciare o confermare una scatola vuota, perché la legge elettorale, che è la sua vera sostanza, sarà fatta dopo, ad uso e consumo della coalizione di governo.
In teoria, gli scenari possibili della riforma sono due: senza e con un premio di maggioranza. Nel primo caso, il premier eletto non riesce a formare un governo, o ne fa uno permanentemente in bilico. Ma allora non si capisce quale sarebbe il vantaggio del “premierato”. Nel secondo, il premio di maggioranza consente di governare, ma la maggioranza parlamentare non sarà, in certa quota, eletta, perché nominata per un effetto di trascinamento. Una vera e propria “democratura”: sia il premier, sia la sua maggioranza rappresenterebbero solo una minoranza di cittadini e per di più avrebbero un potere poco controllabile.
D’altronde, già oggi siamo in una situazione abbastanza simile: la coalizione di maggioranza è tale solo in virtù di un premio elettorale, mentre il partito che ha espresso la premier ha preso solo il 27% dei voti. Il Parlamento è dominato da una maggioranza ampia ma artificiale, ed è prono ai diktat del governo, che fa addirittura ripetere le votazioni quando non gli stanno bene.
Se non bastasse, i partiti di questa pseudo maggioranza pretendono di cambiare più parti della Costituzione: indebitamente, poiché la maggioranza parlamentare assoluta, necessaria alle leggi costituzionali, è fittizia, essendo nata da artifici elettorali al limite della costituzionalità.
In sostanza, il problema è che la riforma, per funzionare, deve essere associata a una legge elettorale con un forte premio di maggioranza. Come per esempio la legge Acerbo, che consentì al regime fascista di governare per venti anni, con le tragiche conseguenze che sappiamo. D’altronde, non è detto che un governo stabile sia un governo buono, e la troppa stabilità confina sempre con la dittatura.
Adesso è chiaro qual è il motivo vero e perché non ne parlano? Perché il “premier forte” potrà essere eletto da una minoranza ma, grazie a un premio ancora indeterminato con una soglia che non sappiamo – entrambi inevitabili – avrà un potere enorme e sarà intoccabile.
Ma c’è un’altra bugia, che viene ripetuta come un mantra per tranquillizzare l’elettorato: che le prerogative della Presidenza della Repubblica non saranno toccate dalla riforma. Anche questo, ovviamente, non è vero.
Infatti, il Presidente non avrebbe più alcun peso nella scelta del primo ministro né nella gestione delle crisi di governo. Cesserebbe del tutto la dialettica tra i gruppi parlamentari e il Presidente, su cui oggi si articola la scelta del premier.
Fin qui, posso anche capire che queste prerogative non piacciono ad alcuni partiti. Le opinioni diverse fanno parte del gioco democratico, ma allora perché non lo dichiarano con franchezza? Perché mentire negando che le prerogative del Presidente saranno modificate?
Anche questa bugia nasconde una pericolosa verità.
Infatti, con questa riforma il Presidente della Repubblica sarebbe eletto da un Parlamento subordinato al governo. E tra un premier eletto dal popolo e un Presidente eletto da un Parlamento poco autorevole, ditemi voi chi conta di più. Va da sé che il Presidente della Repubblica avrebbe un ruolo di mera rappresentanza, una cosa da operetta.
Cesare Pirozzi.