L’Olocausto raccontato dalle donne è struggente – 27 gennaio Giornata della Memoria
Troviamo le conversazioni tra deportate che parlano “della famiglia, degli amori, del lavoro”. Ci sono le case di tolleranza nei lager, tra macabre violenze e iniezioni per bloccare la fecondità. Ci sono streghe torturatrici che esibiscono i corpi delle vittime come trofei. Ci sono anche coraggiose custodi di un pugno di preziosissimi libri. C’è la cura per le compagne malate. Ci sono madri e figlie che si stringono per resistere. Ci sono intrecci del destino nelle città sconvolte dalle leggi razziali e dalle deportazioni.
Si moltiplicano le testimonianze e i romanzi delle donne sull’Olocausto.
Storie dentro la storia della ferita più grande del Novecento, che tentano di far emergere la specificità dei vissuti femminili nell’esperienza dell’internamento e della guerra.
Ci ha provato tra le prime nel 2011 Lucille Eichengreen, sopravvissuta a dodici anni di ghetti e a tre di campi di concentramento fino alla liberazione di Bergen-Belsen. Il suo “Le donne e l’Olocausto” (Marsilio), è uno dei pochi memoriali concentrato esclusivamente sulle prigioniere, sulla straordinaria capacità femminile di formare micro-comunità solidali anche dove manca il minimo barlume di umanità.
Di conservare intatta la speranza in mezzo alle fiamme di quell’inferno.
Eichengreen racconta le compagne di sventura: ci sono le nobiltà e le miserie, un passato che non si dimentica e un futuro che nonostante tutto non si abbandona mai come orizzonte, come luce per continuare a sopravvivere e sperare.
Riferisce: “Molti anni dopo incontrai per caso la dottoressa Gisa a New York. Ora esercitava presso il reparto maternità di un ospedale. Non accennammo al passato, ci guardammo in silenzio, un silenzio carico di mille parole. Poi, ripensammo entrambe ad Auschwitz, a Sasel e a Bergen-Belsen. Fu lei a rompere il silenzio dicendo che faceva nascere i bambini. Sentiva dentro se stessa che dopo Auschwitz, Dio le doveva almeno queste vite; dei bambini sani, dei bambini vivi”.
E così Dita Kraus ha avuto libri da sorvegliare. Ne “La libraia di Auschwitz” (Newton Compton), ripercorre le vicende che a 14 anni e mezzo l’hanno portata a diventare la sorvegliante dei dodici libri o giù di lì che costituivano la biblioteca nel Blocco 31, il Kinderblock dove i bambini stavano durante il giorno.
Lì conoscerà Otto Kraus, che poi diventerà suo marito, educatore che a sua volta descriverà quegli anni terribili ne “Il maestro di Auschwitz”, uscito in Italia con lo stesso autore.
Mantenere accesa nel buio la fiammella della cultura era il loro compito.
Dita dirà: “Ero più matura delle ragazze della mia età. Avevo visto in faccia la tortura e la morte; avevo imparato a essere poco appariscente, per non attirare l’attenzione degli uomini delle SS. Ero stata circondata da donne adulte che parlavano liberamente di questioni intime, eppure per certi versi ero ancora una bambina immatura e ingenua”.
Storie e ancora storie a ricomporre una sola storia, quella della ferita più grande del Novecento.
Tutto diventa un’immersione nella disperazione e nella distruzione, tra sofferenze, solidarietà e condivisione.
Non basta un giorno per la Memoria. Non basta il 27 gennaio perché la Shoah è una vicenda tragica che si è verificata grazie anche al consenso, all’omertà e ai pregiudizi di molti. Insieme ai discorsi sulla memoria si affianca quello cruciale delle responsabilità. Non ci si deve sottrarre all’operazione faticosa di raccontare in ogni modo possibile le crepe che hanno segnato quell’epoca, le sottovalutazioni, il tentativo ostinato di trovare anche qualche razionalità dove non poteva esserci.
La memoria non è un imperativo, un obbligo morale.
E’ il pane di cui tutti continuano a nutrirsi come sempre, stesse domande, dubbi, oscurità e sprazzi vivificati.
Per quante generazioni dura il male?
Inevitabile domanda a cui ognuno dei sopravvissuti può dare la sua risposta, che forse mancherà per sempre.
Stefania Lastoria