Il referendum è morto?

Pochi giorni or sono, è stata definitivamente approvata dal Parlamento la legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, fortemente voluta dalla Lega ma resa possibile dalla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione promossa e realizzata (ahimè) dalla coalizione di centro-sinistra nel 2001.

I Partiti dell’attuale centro-sinistra, non avendo i numeri per contrastare l’iniziativa della maggioranza di governo, hanno manifestato l’intenzione di promuovere un referendum popolare per abrogare una legge ritenuta dannosa e ingiusta, in particolare per le aree più svantaggiate del nostro Paese.

Non intendo qui trattare delle ragioni sostenute dalle opposizioni, che condivido, ma ho qualche dubbio sull’efficacia della strategia prospettata, considerando la storia delle numerose consultazioni referendarie succedutesi in Italia negli ultimi cinquant’anni (esattamente tanti ne sono trascorsi dal primo e memorabile referendum sul divorzio). Quanto accaduto si può riepilogare come segue.

Dal 1974 (referendum sul divorzio) al 1981 (referendum sull’aborto e su altre norme) l’affluenza al voto è stata mediamente alquanto superiore all’80% e vi è stata una prevalenza piuttosto netta dei “no”; questo ha consentito, per fortuna, di mantenere alcune buone leggi che costituiscono, ancora oggi, una conquista di civiltà per la tutela dei diritti delle persone.

Successivamente, fino ai primi anni novanta, si tennero numerosi referendum sui più vari argomenti, quasi sempre con buona affluenza (65 – 75%) e – questa volta – con netta prevalenza dei “sì” ma con risultati a volte poco significativi (come l’abrogazione di alcuni Ministeri o del finanziamento pubblico ai Partiti, poi ripristinati con diversa formulazione) o, a mio avviso, poco opportuni (come l’abbandono delle centrali elettriche termonucleari, con spreco di risorse economiche e maggiori danni ambientali).

Solo in un’occasione, per i quesiti sulle limitazioni alla caccia e all’uso di fitofarmaci, non fu raggiunto il  quorum  del 50% richiesto per la validità della consultazione, mentre i “sì” ottennero percentuali altissime (ben superiori al 90%) ancorché inutili. Forse i propugnatori del “no” cominciavano a capire che la strategia più efficace per prevalere – anche se in minoranza – era di non andare alle urne, in particolare quando si trattava di argomenti non particolarmente coinvolgenti per l’opinione pubblica.

Una serie di dodici referendum, promossi da vari soggetti sugli argomenti più disparati, si svolse nel giugno 1995, con esiti diversi e con affluenza media poco superiore al 55%. Il punto di svolta, però, si può individuare nella tornata del giugno 1997, quando una nuova raffica di sette referendum, quasi tutti proposti dai Radicali, non sortì alcun esito per il mancato raggiungimento del quorum: più di due elettori su tre, infatti, non si presentarono ai seggi. Questa tendenza si è accentuata nel nuovo millennio, fino al 2022: in questo periodo si tennero, in sette tornate, ben 26 referendum, in 22 dei quali non ci si è nemmeno avvicinati al quorum richiesto (la partecipazione è stata sempre più bassa, fino a sfiorare il 20%). Costituirono, invece, una positiva eccezione i quattro referendum del giugno 2011, tra i quali spiccano i quesiti – evidentemente molto coinvolgenti – riguardanti l’acqua e i servizi pubblici, per i quali la partecipazione risalì fino al 55% circa, con una prevalenza assolutamente plebiscitaria dei “sì”.

Si confermava tuttavia la linea di tendenza generale all’astensione, determinata probabilmente dall’abuso che si era fatto del prezioso istituto referendario (specialmente da parte dei Radicali) forzandone la finalità con l’intento di modificare le leggi – anziché abrogarle – con artificiosi tagli di parole o parti di articoli, tali da rendere i quesiti del tutto incomprensibili per gli elettori.

Tornando alla legge sull’autonomia differenziata, pur essendo favorevole alla promozione – annunciata dai partiti dell’opposizione – di un referendum abrogativo, temo, alla luce delle suddette tendenze, che l’iniziativa possa rivelarsi un fallimento per i motivi seguenti.

In primo luogo, sia la tendenza all’aumento dell’astensionismo mostrata dalla storia dei referendum, sia l’attuale crescente disaffezione dei cittadini nei confronti della politica con la conseguente rinuncia al voto di una porzione sempre maggiore dell’elettorato, non incoraggiano a ben sperare sulla possibilità che si raggiunga il quorum.

In secondo luogo, come appare dai risultati dei referendum più recenti, è probabile che, in molti casi, coloro che erano contrari all’abrogazione abbiano disertato in massa le urne, facendo così mancare il quorum. Ormai tutti sanno che questa strategia è la più conveniente per i sostenitori del “no” nel caso che ritengano (o temano) di non poter vincere.

Faccio un esempio numerico. Sappiamo che normalmente almeno un terzo degli elettori si astiene per i più svariati motivi, quindi possiamo ipotizzare che la percentuale dei potenziali votanti sia di circa il 65%. Di essi, poniamo pure che gli abrogazionisti costituiscano una forte maggioranza, magari il 70%. Persino in questa situazione di netto vantaggio per questi ultimi, basterebbe che (quasi) tutti i sostenitori del “no” non andassero a votare per impedire il raggiungimento del quorum. Il risultato concreto – perfettamente legittimo – sarebbe il prevalere della volontà di una esigua minoranza, che rappresenterebbe meno del 20% dell’elettorato complessivo. Evidentemente, la strategia dell’astensione non funzionerebbe nei casi, non tanto probabili, di affluenza molto alta e di grande prevalenza dei “sì”; sarebbe però, senza dubbio, efficace nella maggior parte delle situazioni oggi prevedibili.

Dobbiamo quindi trarre la conclusione che il referendum abrogativo sia uno strumento ormai inutile a causa del vincolo legato al raggiungimento del quorum? Sarebbe forse preferibile che tale vincolo (che non è previsto per gli altri tipi di referendum) venisse eliminato? Sono convinto che i Padri costituenti abbiano stabilito questa regola per ottime ragioni, che non mi permetto di contestare; è anche vero però che a quel tempo si dava per scontata un’affluenza molto elevata, e che il voto era sentito – molto più di oggi – come un dovere civico, oltre che un diritto.

Ad ogni modo, è auspicabile che questo importante istituto previsto dalla nostra Costituzione non sia condannato all’estinzione a causa del proliferare di una strategia (lecita ma non proprio conforme al fair play) che punti ad incoraggiare, in modo più o meno velato, l’astensionismo, ma che sia ancora utilizzato e valorizzato con la partecipazione del maggior numero possibile di cittadini.

Adolfo Pirozzi