Questa è una storia malata e contorta. È la storia della luce contro l’oscurità.

Parliamo di True Detective, in particolare della prima stagione.

Nel 1995, ai detective Marty Hart e Rust Cohle viene affidato un caso piuttosto particolare: una donna viene ritrovata con le mani legate, il ventre accoltellato, bendata e con una corona di spine e due corna di cervo sulla testa.

Anche se la storia, per esattezza, non comincia così. Infatti sono proprio i due ex detective a raccontare gli eventi a una coppia di poliziotti, che li ha convocati in sedi separate.

Quello che viene raccontato ai due poliziotti è il susseguirsi di un insieme di eventi, a partire dal caso del ’95, che hanno portato la vita dei detective allo sfracello.

Bisogna precisare che non si parla di due persone normali, o meglio, Marty, è il classico padre di famiglia, cattolico, che si concede più di una scappatella dal tetto coniugale, ma soprattutto scettico e ordinario. L’anomalia risiede in Rust, un ex infiltrato della narcotici, che porta sulle spalle il decesso della figlia e un matrimonio fallito. Rust incarna l’opposto di Marty, ateo, ma spirituale, ossessionato e metodico, e in particolare solitario.

È tramite il personaggio di Cohle che si può approfondire l’animo umano e le sue sfaccettature, la sottile linea che divide l’ossessione dalla follia, tema che viene riproposto più volte, sia dal punto di vista dei sospetti colpevoli dei crimini su cui sta indagando la coppia di detective, che da quello dei detective stessi.

I delitti che avevano condotto a un colpevole, continuano, anche se sotto forme diverse. Ed è qui che ci ricolleghiamo al presente, quando i due poliziotti chiedono l’aiuto ai due ex detective.

Ma le strade percorse sono diverse, e Rust, che dopo le dimissioni, era sparito per otto anni, segue una pista di cui è convinto, convinto al punto da rischiare la propria vita.

Questa serie va oltre il concetto di crimine e condisce l’ordinarietà del lavoro, con una visione filosofica; il ripetersi dei propri giorni cattura l’attenzione di Rust, che arriva al punto di vedere questi come una maledizione, un ciclo continuo di sofferenza e caos, in cui l’unica risposta è agire. Questa teoria più il nichilismo di Cohle sono un evidente richiamo a Nietzsche e al pensiero secondo cui “la verità non esiste, e per questo, va cercata; l’ordine non esiste, e per questo, siamo chiamati a fondarne di nuovi”. Nietzsche chiamava questo controsenso “nichilismo attivo”, Rust lo traduce nella disperata ricerca della giustizia.

Quello che ci rimane, una volta terminato l’ultimo episodio, è un senso di vuoto che chiede di essere riempito, anche se non sappiamo con cosa. Nascono nuove domande, su noi stessi, ma anche sul mondo che ci circonda.

Al termine della serie, quello che abbiamo davanti è il sacrificio di una vita dedicata all’inseguimento della verità. Uno sguardo al passato, di sfuggita, prima di ritrovarsi a fissare il niente che si prospetta come futuro.

Una serie adatta a chi cerca sempre quel qualcosa in più, a chi freme dalla voglia di passare alla pagina successiva, a chi si guarda intorno, nel caos che chiamano vita, e non vede l’ora di fuggire il prima possibile.

Luca Baldi

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