La teologa Simona Segoloni Ruta invita a vedere Maria e Giuseppe, sovversivi per amore
Nella festa della Santa Famiglia, la teologa Simona Segoloni Ruta, invita a rivedere convinzioni superate e ad usare interpretazioni più critiche sul concetto della famiglia di Nazareth.
Nella domenica in cui si festeggia la Santa Famiglia (29 dicembre), è opportuno mettere da parte la tradizione un po’ stucchevole che per troppi secoli ce l’ha dipinta con il colore artefatto del devozionismo fuori dalla storia e dalla realtà. Maria e Giuseppe sono molto, molto di più di questo. «Sono due sovversivi per amore, due alternativi che hanno cambiato la storia», assicura la teologa Simona Segoloni Ruta, docente al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II.
Se ci pensiamo bene abbiamo una madre rimasta incinta in modo straordinario, un padre che non è tale dal punto di vista biologico, una fuga in Egitto che lascia supporre la fatica dell’esilio in un paese straniero, la perdita del lavoro, della casa, dei riferimenti fondamentali. Allora come mai per secoli quella di Nazareth è diventata la famiglia ideale?
Quando si leggono i Vangeli occorre prestare attenzione a distinguere tra la dimensione storica e la dimensione simbolica in particolar modo se parliamo dei Vangeli dell’infanzia di Gesù, che più che raccontare i fatti ci offrono significati per comprendere la vita di Gesù e l’opera di Dio in lui.
Dovremmo anche dire che non sempre la famiglia di Nazareth è stata al centro di questo processo di idealizzazione, ma è passata attraverso varie letture. Vero che ad un certo punto c’è stato uno scollamento tra quanto raccontano i Vangeli e l’operazione che ha portato a trasformarla in una sorta di quadretto devozionale, un santino che non rende giustizia ai protagonisti di questa storia. Quello che è certo è che i Vangeli non avevano alcuna intenzione di idealizzare la famiglia di Nazareth e di indicarcela come modello di riferimento, almeno nel modo in cui l’abbiamo a lungo intesa.
Ad esempio, al fine di tradurre in modo più comprensibile per i credenti dei nostri giorni l’espressione “per opera dello Spirito Santo”, è sbagliato associare immediatamente questa espressione al solo concepimento miracoloso, cioè un concepimento avvenuto senza rapporto sessuale e senza il contributo biologico paterno.
Perché quando parliamo di “opera dello Spirito Santo” in realtà facciamo riferimento a qualcosa di molto più profondo, di molto più radicale di quanto possa essere un concepimento miracoloso. Fra l’altro la storia di Israele è piena di concepimenti miracolosi e anche nei Vangeli, la nascita fuori dalle regole di Gesù è preceduta da quella altrettanto fuori dalle regole di Giovanni Battista.
Vuol dire che in questo concepimento c’è molto di più di un concepimento miracoloso. Se fosse stato solo un intervento miracoloso di Dio, che va oltre le regole ordinarie della biologia, avremmo un bambino nato in modo straordinario, come Giovanni e tanti altri, non il Figlio di Dio. E non dobbiamo fare l’errore di pensare che proprio il concepimento straordinario fa di Gesù il Figlio di Dio in quanto qui Dio farebbe la parte del padre umano. Qui è lo Spirito (che fra l’altro in ebraico è di genere femminile) a operare l’incarnazione e siamo lontanissimi dall’idea tutta pagana che la divinità insemini una donna (come Zeus faceva regolarmente dando vita a non si sa quanti semidei ed eroi). Qui siamo di fronte a qualcosa di ancora più grande del concepimento fuori dalle regole biologiche, anzi questo fatto è del tutto accessorio rispetto alla novità e alla grandezza di quanto accade nell’incarnazione. L’atto dell’incarnazione di Cristo infatti riprende il momento in cui, prima dei tempi, il Figlio è stato generato dal Padre. Ora come allora il Padre mette al mondo (genera) il Figlio riversando su di lui lo Spirito (cioè il suo amore vivificante), solo che ora questo Spirito si riversa su Maria e così il Figlio, da sempre generato come uguale al Padre, viene generato come figlio di una donna, come umano, pur senza perdere la propria identità divina di Figlio del Padre. Il Figlio vive d’ora in poi in un altro modo, un’altra modalità di esistenza.
I Vangeli dell’infanzia sono un tipo di letteratura che non si preoccupa di ricostruire gli eventi storici ma di proporre un insegnamento.
Per quanto riguarda Giuseppe, per esempio, possiamo vedere come gli evangelisti non si affannano a presentarcelo come l’uomo forte, come il capofamiglia a cui tutti devono rispetto, ma come “uomo giusto” che, proprio perché onora la legge, sa andare al cuore del suo insegnamento senza limitarsi all’osservanza esteriore, cosa che fra l’altro Gesù insegnerà a fare poche pagine più tardi nello stesso Vangelo (quello di Matteo) in cui viene presentato Giuseppe come uomo giusto.
Quello del mancato rapporto fisico tra Maria e Giuseppe è qualcosa a cui la teologia ha dato nel tempo molta importanza ma la sessualità è un problema nostro legato a una dimensione soprattutto culturale.
Per il monaco, il sesso è il grande nemico sulla via della santificazione. È una posizione questa che abbiamo pagato, e che in parte continuiamo a pagare, in termini di mancata comprensione di determinati fenomeni umani, ma anche sociali e culturali. Associando la sessualità al peccato, l’abbiamo confinata per troppi secoli al solo ambito della riproduzione. Ma i Vangeli non si mostrano preoccupati per la sessualità. Sono altri gli aspetti che preoccupano gli evangelisti, per esempio il denaro o il potere.
Noi invece, per tutta una serie di ragioni che qui sarebbe lungo approfondire, abbiamo posto grande attenzione alla sessualità ma in senso restrittivo, facendo diventare santo tutto ciò che la esclude.
Altra cosa importante, il gesto di Maria che decide da sola, che prende sulle spalle una responsabilità enorme senza consultare il padre, o il promesso sposo, o altri maschi è una scelta che oggi potremmo definire segnata da una forte valenza femminista, cioè segnata dall’autodeterminazione personale, dall’emancipazione, dalla libertà e dalla consapevolezza di sé, dei propri desideri e delle proprie responsabilità. Maria è libera, è attiva, è una donna totalmente emancipata.
C’è una grande distanza tra le nostre vite e quella dei protagonisti dei Vangeli, distanza cronologica, culturale, relazionale. Le persone raccontate nei Vangeli dell’infanzia, come detto, assumono un significato soprattutto simbolico. Abbiamo un padre, Giuseppe, l’uomo giusto, che onora la logica di Dio sconvolgendo le convenzioni dell’epoca. È interessante che a farlo sia un maschio, un capofamiglia, perché sposta il concetto di autorevolezza dal dettato della legge a quello del rispetto, dell’amore, della custodia. Proprio come Dio che custodisce la vita in tutte le sue forme. E per madre abbiamo una donna libera come Maria, una profetessa in dialogo con Dio. Insomma, siamo di fronte a due figure che, certamente costruite in modo simbolico, ci provocano perché incarnano due modelli di umanità straordinaria e originale. Altro che i santini, altro che le immaginette devozionali a cui troppo spesso sono stati ridotti. Qui siamo di fronte a una coppia di sovversivi per amore, due alternativi il cui profilo riesce a parlare con identica efficacia alle persone e alle famiglie di tutte le epoche. Ma dobbiamo raccontarli per quelli che veramente sono.
Stefania Lastoria