La guerra dei trent’anni al clima

C’è un periodo da macelleria della storia mondiale che squarcia il vasto ventre bovino dell’Europa centrale come mai avvenuto prima. Va dal 1618 al 1648 e prende il nome di Guerra dei trent’anni. Successivamente ce ne sono stati anche di peggiori di squartamenti della bestia europea, eppure quel nome (magari solo il nome) resta impresso anche nel ricordo di noi studenti più scapezzati, smemorati.

A distanza di quattro secoli appaiono ora, per la prima volta, le cifre di un altro trentennale capitolo conflittuale della storia umana planetaria. Capitolo, non volume. Quest’ultimo è ancora in febbrile stesura. Si tratta del tecno-trentennio che va dal 1993 al 2022, e stila l’elenco di morti e costi economici della disastrosa guerra civile al clima. ‘Civile’, nel senso di interiore, come quella interna a uno stesso Paese, perché cosa può esserci di più intimo dell’aria che respiriamo. E ‘civile’, anche nell’accezione di non militare, non combattuta con sistemi d’arma, ma tramite soprattutto produzione di merci civili a mezzo merci civili. Anche se la corrispettiva produzione di merci militari è partner economico primario del conflitto climatico (vedi nostro Antropocene: odio, guerra, distruzione della Terra, Numero 01/24).

800.000 le persone uccise, 4.200 i miliardi di dollari il costo delle conseguenze catastrofiche causate dai 9.400 eventi metereologici estremi verificatisi sul pianeta negli ultimi trent’anni. 42.000 miliardi di dollari corrispondono all’intero Pil della Germania. Queste sono le prime due macro entità evidenziate da Climate Risk Index 2025,  l’autorevole indice redatto ogni anno dalla No-profit Ong tedesca Germanwatch. Questo indice misura i paesi che sono stati colpiti dagli effetti degli eventi sinistri legati alle condizioni meteorologiche. L’indice tiene conto delle vite umane perdute e dei costi finanziari sostenuti a causa di tali accadimenti. Per ‘eventi estremi’ si intende alluvioni, tempeste, ondate di calore non solo di dimensioni e intensità che eguagliano e superano fenomeni precedenti, ma di frequenza sempre più ravvicinata nel tempo. Dominica, Cina, Honduras e Myanmar risultano i quattro paesi più avversati da tali incontenibili insorgenze. Subito dopo, al quinto posto, c’è l’Italia, la quale – con più di 38.000 vittime e 60 miliardi di dollari per danni – è anche il Paese più colpito d’Europa. Spagna e Grecia ci seguono. Nell’indice del rischio, però, il nostro Paese è al terzo posto mondiale, dopo Pakistan e Belize.  La messe di dati attuali e di prospettiva riportati nei due Indici costituiscono il quadro della più vera, vitale, e primaria emergenza mondiale. L’Impero, invece, non può che intonare una lingua non solo morta, ma mortale. La tracotanza del suo disperato tentativo di ritorno, di inversione supertecnologica dell’inevitabile tramonto, non può che oscurarsi di negazione, cancellazione, quale parola, pensiero, azione di morte e per la morte.

Riccardo Tavani