La scrittrice Fatin Abbas: «Noi donne in prima linea per cambiare il mondo»

L’autrice sudanese-statunitense è a Venezia. L’Africa plurale: sotto questo titolo, la scrittrice Fatin Abbas e il saggista e romanziere El Hadj Souleymane Gassama, noto come Elgas, (Senegal – Francia) converseranno a Incroci di civiltà, Festival Internazionale di letteratura a Venezia. Fatin Abbas è docente di scrittura creativa al Massachusetts Institute of Technology e al Bard College di Berlino; autrice nel 2024 di Ghost Season, un romanzo basato sull’esperienza personale come collaboratrice di un’associazione non governativa al confine fra Sudan settentrionale e meridionale, in cui viene ritratta la vita di un villaggio sconvolto dalla sanguinosa guerra civile fra il governo di Khartoum e le forze ribelli. L’autrice è ospite a Venezia dell’editore Wetlands (progetto editoriale dedicato ai temi della sostenibilità sociale e ambientale e alle sfide dell’Antropocene) e ha realizzato per lo stesso Black Time, una meditazione che nasce dal contatto tra lei e la città di Venezia nel susseguirsi di calli, isole, chiese e mostre, attraverso i quali la città diventa un portale per riflettere su grandi temi contemporanei. Ed è di questi che si è dialogato con Abbas.

Considerando che uno dei temi del suo libro è il senso del tempo sia pure nelle diverse dimensioni geografiche e culturali le è stato chiesto di approfondire questo tema.

«Da un lato, abbiamo un’idea del tempo come misura oggettiva di ore, minuti, secondi: una progressione lineare di eventi. Il capitalismo rafforza questo concetto perché si basa molto sulla produttività lineare, rapida ed efficiente delle merci. Ma il tempo è anche vissuto in modo soggettivo e dipende dal contesto culturale: cambia a seconda del luogo in cui ci si trova e delle persone con cui ci si trova. Per esempio, vivo il tempo in modo diverso quando sono in Sudan, dove è più lento e si concentra sulla costruzione di legami sociali e di comunità piuttosto che sulla produzione di beni da consumare.

Avere l’opportunità di essere in Italia e di staccare la spina dalle notizie quotidiane è stato quasi un privilegio. In un certo senso mi sono sentita “libera”. Libertà significa poter vivere una vita sicura, in comunità con la famiglia e i propri cari, una vita che permetta di soddisfare i propri bisogni primari. Libertà è svolgere un lavoro significativo. Queste cose sono semplici, ma purtroppo inaccessibili a un gran numero di persone in tutto il mondo a causa di conflitti, povertà, cambiamenti climatici, patriarcato e sfruttamento capitalistico. Per quanto riguarda il modo di convivere con le notizie, penso si debba convivere con esse rifiutando di diventare desensibilizzati e cercando di fare qualcosa, per quanto piccolo, che sfidi le condizioni di oppressione e disuguaglianza che guidano la maggior parte delle guerre. Anche se viviamo in relativa sicurezza in Europa, siamo collegati a coloro che soffrono a causa della violenza in altre parti del mondo. È per un colpo di fortuna che noi siamo qui e loro lì, ed è importante mantenere il senso di questa connessione e della nostra vulnerabilità condivisa, e agire di conseguenza».

Un altro tema del suo libro è la migrazione. Le è stato chiesto cosa significasse per lei sentirsi a casa e cosa invece, citando le sue parole, «tornare al luogo d’origine».

Fatin Abbas, con la dolcezza che la contraddistingue, ha detto che sentirsi a casa vuol dire stare con e intorno alle persone che ama, agli amici e la famiglia. Lei però si sente a casa anche nella letteratura e nell’arte, perché pensa che le arti siano lo spazio in cui troviamo visioni radicali di “casa” che possono abbracciare tutti e fare spazio a tutti. Si sente a casa nella natura ed é legata a certi paesaggi.

Ha aggiunto che pur essendo cresciuta a New York, la città più grande in cui si possa crescere, sempre più spesso trova ispirazione e senso di casa in ambienti naturali che le ricordano il legame e la parentela con il mondo naturale. Per quanto riguarda il ritorno a un luogo d’origine, pensa che in un certo senso tutti noi possiamo decidere cosa rivendicare come luogo d’origine. Lei ad esempio rivendica il Sudan non solo perché ha radici culturali lì, ma perché si trova nella “periferia” globale, è un Paese che è stato colonizzato, sfruttato, trascurato e che attualmente si trova in uno stato di guerra invisibile a molte persone in Occidente. Rivendicando tutto ciò, lei lo rimetto al centro.

Le è stato anche chiesto se pensa, nella sua intensa vita, che per trovarsi occorra imparare a perdersi.

Con un sorriso abbagliante ha risposto: «Perdersi può essere un modo molto produttivo per trovare sé stessi. È qualcosa con cui mi confronto continuamente come scrittrice. È quasi impossibile scrivere un libro senza perdersi da qualche parte lungo il percorso. Quando scrivo devo fare deviazioni, tornare indietro, cercare una strada che potrebbe essere diversa da quella che avevo immaginato. Con Black Time non avevo idea di cosa avrei scritto. Sono arrivata a Venezia e ho permesso al processo di vagare. Così, perdendomi a Venezia, ho trovato il libro».

Altra cosa di cui ha parlato, a proposito di nuove generazioni, riguarda il fatto che sia in atto un cambiamento di valori e proprio a questo proposito introduce il tema del patriarcato.

Fatin Abbas sostiene infatti che quando vede attivisti come Greta Thunberg e il movimento Fridays for Future è veramente colpita da come si battano per il pianeta e la giustizia sociale. Lo vede anche nel movimento studentesco globale per la Palestina, che ha riunito giovani di tutte le nazionalità, culture, fedi e prospettive per lottare per la fine del genocidio a Gaza e, più in generale, per un mondo più giusto. Il patriarcato è un problema a livello globale e negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita di movimenti femministi – guidati da giovani donne – che lo stanno sfidando. In Sudan, le giovani donne sono state in prima linea nella rivoluzione del dicembre 2018-2019, che ha portato alla caduta della dittatura trentennale di Omar al-Bashir nel 2019. Si trattava di una dittatura che esercitava un controllo e una punizione estremamente oppressivi su donne e ragazze. Questi giovani stanno tracciando i punti tra il capitalismo, il colonialismo, il complesso militare-industriale e la distruzione del pianeta. Praticano la solidarietà. Privilegiano valori che affermano la vita.

Non paga di questo, srotola i suoi pensieri con un accenno al razzismo. Per lei il razzismo consiste in sottili atti di esclusione, di diversità, di confinamento, di classificazione. Ovviamente spera che tutto ciò possa cambiare e migliorare ma al momento, come tutti noi, vede solo che la realtà ci mostra un forte peggioramento. Si può vederlo nell’ascesa della politica e dei movimenti di estrema destra in tutto il mondo e nella normalizzazione del pensiero e delle politiche suprematiste che si basano sulla disumanizzazione di alcuni gruppi e comunità. In definitiva, il razzismo è uno strumento di distrazione molto utile. Per cambiare le cose abbiamo bisogno di un sistema economico più equo e giusto a livello globale.

Lei spera che un giorno ci si possa arrivare, lo speriamo tutti quanti pur sapendo che la strada da percorrere è in perenne salita e che ogni giorno un po’ tutti noi, sentiamo che ci stiamo allontanando sempre più da quel salvifico traguardo.

Stefania Lastoria