Storia di Flora, la partigiana che visse tre volte
Flora oggi ha 93 anni portati splendidamente ed è una delle rare testimoni viventi di quell’epopea da cui è nata l’Italia libera. Il suo nome completo è Flora Monti, vive con la figlia a San Lazzaro di Savena, alle porte di Bologna, è stata una staffetta partigiana. Era presente a Milano, al Teatro Martinitt dove, in vista dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, è stato proiettato il docufilm “Flora” che la regista Martina De Polo ha girato proprio per raccontare la sua storia, che non si limita agli anni della Resistenza ma riguarda anche le battaglie che ha combattuto prima da ragazza e poi da adulta per far crescere la democrazia nel nostro Paese, scendendo in piazza al solo scopo di affermare i diritti delle donne e dei lavoratori.
Dopo l’8 settembre, appena dodicenne, Flora consegnava di nascosto messaggi con gli ordini del comando alle cellule della Brigata Jacchia che operava sulle montagne dell’Appennino tosco-emiliano.
E spiega così questa scelta: «Presi questa decisione per amore di mio nonno paterno. Fu lui, pur non volendolo, a darmi la forza di fare il passo, fu lui che con i suoi racconti della realtà che vedeva e viveva, accese in me il desiderio di essere utile, di fare ciò che potevo per il mio Paese, per un futuro migliore. Successe che una sera, davanti al focolare mi raccontò che qualche mese prima una squadra di picchiatori fascisti, erano in cinque o sei, lo presero mentre usciva di casa e lo massacrarono di botte fino a farlo cadere svenuto dentro a un canale ai lati della strada che conduce in paese. Rimase lì tutta la notte, sanguinante e con le ossa rotte, finché all’alba, uno che passava in bicicletta per andare al lavoro si accorse di questo fagotto che stava in fondo al fosso: lo riconobbe e lo soccorse. E così nonno Achille si salvò». Quell’episodio suscitò nel cuore della piccola Flora una tale impressione che volle a tutti i costi, anche contro il parere dei genitori, aiutare chi in quel momento stava lottando per scacciare «i cattivi nazifascisti». Perché quella banda non si limitò a bastonare il nonno ma prima lo costrinse a camminare a piedi nudi sui ricci secchi delle castagne, una vera tortura. E così, tutte le altre storie di soprusi le visse come favole a rovescio, in cui non c’era il lieto fine, in cui non c’era il buono che prevale sul cattivo, in cui nulla finisce con un presente roseo rivolto ad un futuro felice da costruire.
Storie che diventavano i suoi incubi nella notte e la sensazione di non agire, di non intervenire acuiva il suo senso di impotenza.
La famiglia Monti, che abitava in campagna, prestava aiuto ai partigiani e ai militari alleati che avevano bisogno di cibo e vestiti. Aiutavano anche i disertori, quei giovani che non volevano combattere a fianco dei tedeschi e decidevano di armarsi per salire su alla Raticosa (il monte che delimitava la Linea Gotica) per dare una mano ai partigiani.
E fu proprio su proposta di uno di loro che Flora cominciò a fare la staffetta. «Ero piccola e potevo passare inosservata, mi nascondevano dei bigliettini tra le trecce dei capelli, negli indumenti intimi o nelle scarpe e io mi incamminavo, con queste gambe qui, sui sentieri e in mezzo ai boschi per consegnarli ai capi della Resistenza, un compito che ho svolto fino al 2 novembre del 1944».
Alla domanda se avesse paura, se avesse la consapevolezza di ciò che rischiava, se le capitò mai di essere fermata dai soldati del Terzo Reich lei risponde con la luce negli occhi: «Tre volte, e rischiai la vita… Fui bloccata da una pattuglia composta da nazisti e fascisti mentre attraversavo un viottolo, inventai una scusa e mi lasciarono andare… dissi che dovevo andare ad assistere una vecchia malata che abitava da sola in un casolare sopra un poggio, ma non era vero; un’altra volta invece mi misi a gridare disperata dicendo che la mamma mi aspettava e se non fossi arrivata in tempo si sarebbe messa a piangere, fui così convincente che uno dei tedeschi si intenerì… La terza volta me la vidi ancora più brutta, perché forse avevano capito il lavoro che facevo e mi obbligarono a togliermi gli abiti, rimasi in canottiera e mutandine, mi ispezionarono ma non trovarono nulla, allora mi dissero di togliermi anche le scarpe: era in quella sinistra che avevo il fogliettino piegato, sudai freddo e pensai che era davvero finita. Mi tolsi subito la scarpa destra e la feci vedere bene al capitano delle SS il quale poi mi ordinò di levarmi anche l’altra ma il pezzetto di carta per fortuna, forse perché stavo sudando tanto, rimase attaccato alla pianta del piede e nessuno se ne accorse… insomma, la scampai. Avevo sempre paura, una volta mi misero sulle spalle uno zaino pesantissimo dicendomi “guai a te se cadi”, io non ce la facevo a camminare e, arrivata in cima a un colle, mi incuriosì e toccai il contenuto della borsa: erano tutte bombe a mano».
Flora ha finito il suo racconto e, con gli occhi che ancora le brillano e un passo deciso, si dirige verso il palco del teatro per salutare i presenti. Prima di salire si aggiusta il fazzoletto tricolore intorno al collo dicendo, orgogliosa. «Questo me lo ha regalato poco fa il Ginetto, dell’Anpi Lambrate Ortica, quello mio l’ho messo nella borsa…».
Ed è soprattutto alle ragazze e alle donne come Flora se oggi, con orgoglio per il loro esempio e il coraggio dimostrato, possiamo festeggiare la Liberazione dell’Italia. Tutta gente che ha rischiato la propria vita o è morta per garantire a noi la libertà.
Una libertà poi data erroneamente per scontata perché come possiamo vedere, in tutti gli ambiti della vita, nulla è mai scontato ma ogni conquista deve essere amata e difesa, sempre, in ogni istante perché basta un nulla per ritrovarci a mani vuote, privati e derubati dei diritti basilari dell’uomo, per arrivare ai quali, altri uomini hanno dato la loro vita per la nostra vita.
Stefania Lastoria