L’arte sentimentale del fotografo d’attacco

Chi può dire di avere mai visto il volto di Renata D’Angelo? Alla fine degli  anni ’70 del secolo scorso, questo nome appare come fotografa del Quotidiano Donna. Di lei – dopo la fine di questa esperienza editoriale –, misteriosamente, non si è saputo più niente. Non delle sue foto, però. Suoi nuovi scatti continuano ad apparire: su Il Manifesto, Lotta Continua, nelle locandine, nei fogli, nei dazebao incollati sui muri delle strade. Anzi, a pensarci bene, altre foto ancora erano apparse già diversi anni prima. Ad esempio, su Potere Operaio del lunedì, all’inizio del ’70. Ma la firma è di un altro autore: Tano D’amico. Un maestro o un un allievo di Renata D’angelo? No, semplicemente, il suo coincidente in sembiante maschile. Le redattrici di Quotidiano Donna, conoscono talmente bene quel fotografo e la sua opera, da averne colto l’ineffabile attenzione al sensibile femminile e avergli così elargito quel nome: Renata D’Angelo. Renata, rinata, oltre il genere, il sesso come Angelo della fotografia dei, nei movimenti. Perché tale è sempre stato e continua a essere Tano D’Amico.

Quel nom de plume, in realtà molto di più che di penna, rende ancora oggi molto orgoglioso il fotografo. Per noi un aneddoto, magari poco conosciuto, che prendiamo qui a pretesto per cogliere il senso del suo recente libro I nostri anni, per l’editore Settanta Milieu. A proposito del Movimento del 1977, scrive l’autore già nelle prime pagine di questo suo testo: “La bellezza femminile fu splendida e luminosa quell’anno. Una bellezza nuova che non voleva compiacere nessuno. Una bellezza che finalmente era il vero aspetto della persona. Cambiò il sorriso, lo sguardo, il gioco. Anche il pianto e il lutto, che vennero presto”. Centrale per la vicenda collettiva, ma anche per quella strettamente personale del fotografo fu l’assassinio della giovane studentessa Giorgiana Masi, colpita da una pallottola a Ponte Garibaldi il 12 maggio 1977. Durante una manifestazione indetta dal Partito Radicale di Pannella per l’anniversario del vittorioso referendum sul divorzio, la polizia aggredisce il corteo, e Tano D’Amico scatta una foto divenuta celebre: un poliziotto camuffato da manifestante e in movimento operativo che impugna una pistola durante quegli scontri. Non è il solo agente travestito in quel modo. Le donne che il giorno successivo si radunano sul lugo per depositare cuscini di fiori sono di nuovo brutalmente caricate dalla polizia. Tano scatta tra le foto più drammaticamente vere della storia contemporanea. Esse svelano al contempo il volto e il carattere autentico delle donne che cambiano anche quel pianto e il lutto, che vennero presto. Cruciali pagine del libro raccontano di un successivo contatto del fotografo con un ufficiale di polizia che svelano cosa si è realmente mosso dietro l’assassinio di Giorgiana Masi. Il Ministro degli Interni Francesco Cossiga, non si dimise per quei fatti, ma anzi fece una vertiginosa carriera nelle istituzioni fino alla Presidenza della Repubblica nel 1985.

Poche figure come quella di Tano D’Amico sono state così conosciute, e al contempo non solo ammirate, ma proprio amate, e lo sono ancora, da chi ha partecipato a quei movimenti di lotta, impegno civile e indipendenza culturale. Niente, infatti, ha saputo dare loro un volto inedito, autentico, non stereotipato o asservito al potere mediatico, quanto l’insieme della sua grande opera fotografica. Il 2 febbraio è l’altra data drammatica che segna la nascita stessa del Movimento del 1977. In risposta all’assalto fascista alla Facoltà di Lettere a Roma e al grave ferimento alla testa di Guido Bellachioma, un corteo si forma la mattina successiva. A Piazza Indipendenza un’auto civetta della polizia tenta di fermarlo, sparando raffiche di mitra. Dal corteo qualcuno risponde al fuoco. Tano D’Amico vede, sente il rantolo e il respiro a due passi da lui di una persona sanguinante a terra e di un’altra che lo afferra per portarlo via in salvo con sé, con entrambe le loro pistole in pugno. Il fotografo da sempre, ha già la macchina in mano. È il famoso scatto che va sotto il nome di Daddo e Paolo, ossia di Daddo Fortuna e Paolo Tommasini, successivamente arrestati. Una foto rimasta nascosta per vent’anni, per le conseguenze giudiziarie che poteva avere. Ma pure nell’invisibilità, la sua potenza iconografica è stata l’occasione di tutto il successivo apparire di immagini immemoriali, ossia di incancellabile memoria non solo del passato, ma anche del futuro remoto.

Le foto di Tano D’Amico – come lui racconta nel libro – sono prima passate di occhi in occhi e mani di quelle ragazze, ragazzi che nelle redazione dei giornali piccoli e grandi di quel tempo. Le prime le usavano per fare manifesti, locandine, fogli di movimento; le seconde per nasconderle, pubblicarle ridimensionate, tagliate, censurarle del tutto. In quest’ultimo aspetto, solitudine e scarsezza di mezzi, povertà, hanno sempre accompagnato la vicenda esistenziale di Tano D’Amico. Una condizione estrema, però, che lui ha sempre ricondotto ad arte, intesa quale intreccio indissolubile di sensibilità sociale e fotografica. Lo dice lui stesso: “Sempre in viaggio, ma cosa cercasse il fotografo non lo sapeva nemmeno lui. Il suo lavoro era fatto di solitudine. Doveva essere  solo per sentire un paese, un popolo oppresso. Doveva essere solo per sentire i muri parlare, anche nel fragore del traffico, echeggiare l’eco di grida ormai soffocate, vedere le ombre di un comporsi insieme che c’è stato”. La fotografia non può che essere sociale, e il sociale non può fare a meno, nel suo continuo mostrarsi, di esprimersi attraverso immagini nuove, mai apparse prima.

Non solo immagini, ma anche sentimenti nuovi. Immagini, movimenti e sentimenti sono anche loro inscindibili: “L’immagine nuova irrompe negli squarci della storia quando c’è conflitto. Non ci sono veri movimenti senza immagini”. E i sentimenti, non solo e non tanto quelli d’amore, d’affetto e anche d’amicizia, fondamentali come spiega Tano D’amico, ma proprio nel senso del sentire, percepire, avvertire sensibilmente, abissalmente, la follia dell’ingiustizia. E contro di essa destarsi all’improvviso commossi, mossi insieme, messi in movimento. È proprio in questo che si svela quella corrispondenza vertiginosamente intima tra Renata D’Angelo e Tano D’Amico che avevano intuito al Quotidiano Donna. Chi più delle donne – anche di quelle delle borgate di fronte ai plotoni di polizia che lui ha fotografato – sente in sé l’asfissia di un’ingiustizia che il potere patriarcale, come sistema sociale generale e capillare, pretende di incidere sul vivo loro pelle, in ogni loro singola cellula e sinapsi, per meglio schiacciarle?  

Un libro infinito, di appena ottantatré pagine, di una tersità linguistica e sapienza letteraria che stupiscono sia per la loro strigata bellezza, sia per un altro paradosso. Tano D’Amico, infatti, ha sempre sostenuto, in polemica con gli stessi movimenti, il loro non comprendere appieno l’importanza dell’immagine, rimanendo prevalentemente ancorati all’egemonia della parola, dei concetti, storicamente più discendenti dalle classi colte, alte della società. Scrive: “Le immagini nascono prima dei pensieri. Le immagini sono punti di partenza per i pensieri e per le parole”. Evidentemente l’autenticità luminosa dai suoi scatti, rigorosamente in bianco e nero, non può fare a meno di donare luce di senso anche alle sue parole scritte e dette.

Riccardo Tavani

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