Una finanziaria di cui non essere orgogliosi

La nuova legge finanziaria sta suscitando le solite sterili polemiche. Se è scontato che le opposizioni la critichino, meno si capiscono le liti tra alleati di governo per alcune misure, che gli stessi avevano approvato, il giorno prima, in sede di CDM. Alzheimer? la solita “ammuina”? Nel polverone che si solleva, i contenuti più significativi della Legge di Bilancio si confondono e diventano meno visibili. Diventa meno evidente che si tratta dell’ennesima finanziaria miope e inefficace.

Ma così va il mondo: in passato si litigava per accaparrarsi qualche beneficio (il cosiddetto “assalto alla diligenza” che accompagnava ogni finanziaria), oggi si bisticcia per difendere la categoria o il gruppo sociale più vicino al cuore delle segreterie politiche dei partiti.

Chiarisco subito che l’unico punto apparentemente positivo è l’aver contenuto il deficit entro il 3%; ma con il solito metodo: tagli alla spesa e qualche accisa in più, lasciando irrisolti i problemi del Paese. Con una chicca inedita: mettere in bilancio i miliardi che le banche dovrebbero “volontariamente” accollarsi, anche se non è per nulla certo che lo facciano.

Infatti, il presidente dell’ABI ha dichiarato che “non esiste il concetto giuridico di extraprofitti” e che il governo si è inventato i numeri, confondendo “i ricavi lordi con utili netti già tassati”: cioè, secondo Patuelli, non ci sono i presupposti per questa sorta di “tassa volontaria”, né dal punto di vista giuridico né da quello contabile.

Al di là delle polemiche, può essere interessante vedere alcuni aspetti economici dimenticati e tuttavia rilevanti.

A fronte del gettito dell’IRPEF, pari a 198,9 miliardi nel 2023 (dati ufficiali) ed a 207,15 nel 2024 (dati ufficiosi), prevalentemente a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, si prevede una riduzione di 2,8 miliardi nel 2026 per il ritocco delle aliquote. Meglio di niente? Forse no, come vedremo più avanti. Rimane invariato l’8 per mille, che totalizza 1,5 miliardi l’anno, più della metà dello sgravio IRPEF. Cifra che viene sottratta alle casse dello Stato per finire in quelle delle chiese riconosciute in Italia. Se è giusto che i credenti sostengano le loro chiese, forse non è giusto che lo faccia quella solita quota di cittadini (compresi gli atei, gli agnostici e i pagani) che pagano la maggior parte dell’IRPEF, mentre il 43% degli italiani (compresi i cattolici e i credenti di altre confessioni) non la paga affatto. Alla fine, le categorie meno ricche finanziano anche le chiese, oltre che le scuole, gli ospedali e tutta la “cosa pubblica”. 

Ma non voglio fare un discorso tro, da anticlericale ottocentesco. Il discorso mi è venuto per associazione di idee, pensando che in Svizzera la tassa sui patrimoni, che da noi non esiste, può arrivare giusto all’8 per mille.

Facciamo due conti.

Il patrimonio finanziario degli italiani è stato calcolato a 6.200 miliardi di euro (Boston Consulting Group, 2023), in crescita del 4,4% l’anno dal 2008: in pratica è raddoppiato, mentre i salari nello stesso periodo i salari hanno perso l’8,7% (dati ISTAT 2024). Quello immobiliare ammonta a 5.547 miliardi (rapporto Confedilizia/Banca d’Italia, 2023).

Tassando il primo dell’8 per mille, lo Stato incasserebbe 49,6 miliardi. Tassando il secondo della stessa percentuale, ne incasserebbe 44,3.

Anche esentando, come è giusto, i patrimoni più piccoli o altre fattispecie, quante finanziarie si potrebbero fare con questo più laico 8 per mille, senza tagliare la spesa sociale? E quanto si potrebbe ridurre il peso del fisco sul lavoro dipendente? E quanto crescerebbero, di conseguenza, i consumi e quindi la produzione, il PIL e quindi il gettito fiscale nel suo insieme?

C’è poi un altro aspetto dimenticato della nostra economia.

Non solo la produzione dell’industria (-2,9% nell’ultimo anno) e di diversi settori dell’agricoltura (da -13 a -32%) sono in calo, ma anche la produttività cresce poco, comunque molto meno che negli altri Paesi industrializzati: dal 2012 al 2022 la crescita media annua è stata dello 0,2%, contro lo 0.9 della media OCSE; la differenza, ovviamente, è più eclatante rispetto a Germania, USA o Giappone (Job Creation and Local Economic Development 2024 – Country Notes: Italy). 

Un recente studio della Banca d’Italia ci dice che tale gap è principalmente dovuto non agli operai o alle strutture, ma al cosiddetto “capitale organizzativo”, cioè ai manager e dirigenti. Credo che questo non voglia tanto dire che i nostri manager siano piuttosto “scrausi” (come si dice a Roma); forse sì, ma è più probabile che il capitalismo nostrano tenda a investire nella finanza piuttosto che nelle attività produttive, o che sia poco orientato alla produttività, potendo contare sul vantaggio dei bassi salari. 

Sta di fatto che la remunerazione dei manager è sempre cresciuta, fino a picchi del 15% annuo in più per i top manager delle grandi aziende, mentre i salari hanno sempre perso quell’8,7%.

Per evitare che continui questa tendenza, portandoci verso un regresso economico ancor più grave, serve una strategia articolata e lungimirante, di cui non c’è traccia nella finanziaria né, più in generale, nell’azione del governo.

Certamente, il riequilibrio della leva fiscale tra lavoro e patrimonio, e l’aumento dei salari possono essere uno stimolo verso l’aumento della produttività e l’innovazione tecnologica, oltre che un elemento di riduzione del deficit. Ma l’altro importante strumento è quello dell’istruzione e della ricerca, su cui non si investe abbastanza né economicamente né sul piano normativo.

Ma la conseguenza forse più preoccupante e dimenticata delle attuali politiche economiche è l’emigrazione giovanile, che contrasta con l’aumento apparente dell’occupazione, dovuto soprattutto all’aumento dell’età di pensionamento: uno spietato indicatore di regressione sul piano sociale, oltre che economico. Tra il 2011 e il 2023 sono andati all’estero circa 550.000 giovani tra i 18 e i 34 anni. Tra questi i laureati sono ormai la metà e provengono soprattutto dal nord e centro Italia, con una netta inversione di tendenza rispetto al passato, quando l’emigrazione riguardava soprattutto il sud e le persone meno scolarizzate. La cosa è ancora più preoccupante perché la percentuale dei giovani nella popolazione generale è già in calo per la bassa natalità. Una tale fuga di cervelli e di giovani impoverisce ulteriormente il nostro Paese ed è forse la minaccia più seria per il futuro.   

Fermare questa emorragia dovrebbe essere l’obiettivo principale delle leggi di bilancio, ma non sembra che qualcuno se ne stia occupando.

di Cesare Pirozzi

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