Ambasciator non porta pena
Da ieri il popolo palestinese, e tutti quelli che hanno a cuore la convivenza pacifica, hanno un altro evento da ricordare come disastroso: lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere la città contesa tra i due popoli come la capitale di Israele, rompe con la tradizione americana di una, almeno formale, equidistanza e segna di fatto la fine del sostegno alla politica dei due Stati. Una decisione che toglie agli Usa qualsiasi credibilità come possibile mediatore tra le parti.
Le inevitabili proteste e la reazione dell’esercito israeliano, che ha sparato munizioni e lacrimogeni contro i manifestanti, hanno già provocato la morte di almeno 59 palestinesi e il ferimento di altri 2.700.
Sono decine di migliaia di palestinesi nella Striscia di Gaza assediata che stanno tentando di attraversare la recinzione che separa il territorio da Israele.
Misure di sicurezza eccezionali sono state disposte nell’area intorno all’ambasciata e lungo i confini. Tutto è pronto per un’altra strage.
Oltre che a Gaza sono molte le manifestazioni programmate nella West Bank. Cortei sono partiti dalle città occupate di Ramallah e Hebron.
La decisione americana sconta una forte l’opposizione nel mondo arabo. Contrari anche l’Organizzazione delle Nazioni unite, la UE e gran parte della comunità internazionale. Turchia e Repubblica Sudafricana hanno richiamato gli ambasciatori. Gli Stati Uniti, intanto, si sono opposti ad una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite indetta per dare il via a un’indagine indipendente e imputano ad Hamas ogni responsabilità sull’accaduto.
Mentre i manifestanti morivano, alla cerimonia di apertura, che cade nel 70esimo anniversario della fondazione dello stato di Israele, la delegazione americana guidata da Ivanka Trump brindava e il presidente statunitense, in un video, ribadiva il suo impegno per un accordo di pace.
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