Lotto 285 – capitolo ottavo

   “…Un metodo di combattimento che ha fatto buona prova nelle lotte dei primi coloni americani contro i pellirosse, perché non dovrebbe funzionare anche qui, dove la situazione è analoga? Perciò alla lunga si potrebbe persino rinunciare ai fucili e persino i cinque di mia proprietà non sono assolutamente indispensabili, e verranno usati solo perché ormai ci sono…” Franz Kafka

Quegli stessi insegnanti, pensai, che mi avevano assistito nei miei anni di collegio e mi avevano formato al rispetto dell’altro e, soprattutto, al rispetto di quelle figure in orbace che sembravano controllare, nelle loro  frequenti visite alla scuola, l’andamento di quello che ci era imposto di imparare, su libri di testo il cui contenuto non sembrava essere chiaramente ostile al pensiero diffuso dal regime dominante. Ma io, come tanti, assorbivo quella cultura senza  lasciarmene peraltro influenzare, anzi, maturando in cuor mio elementi di dissenso verso quegli insegnamenti che sentivo essere coercitivi ed imposti dall’alto.

Talvolta il controllo andava oltre il normale e ci veniva spesso imposto di assistere alla messa domenicale, di stare composti a tavola, di ascoltare le prediche delle assistenti, cose che, ribelli come eravamo a quell’età, ci facevano l’effetto contrario di quello previsto da quella rigida educazione. Comunque, nelle mie notti solitarie, disteso sul mio letto, altri pensieri mi occupavano la mente. Avevo conosciuto, in una delle nostre frequenti gite alle colonie marine, dove, vestiti da marinaretti e col copricapo bianco con un fiocco azzurro sul di dietro, passavamo parte delle vacanze estive, lontani dalle famiglie che  forse godevano di quella momentanea assenza dei loro figlioli, certe che avremmo avuto l’assistenza e la vigilanza del personale addetto, uomini o donne che fossero, avevo conosciuto, dicevo, uno dei miei primi amori infantili. Mi ero invaghito di una scolaretta che frequentava quella colonia,  dai biondi capelli, scintillanti, tanto che mi appariva come una creatura venuta da un altro mondo, e che mi aveva semplicemente sorriso in una delle tante esercitazioni ginniche che ci imponevano di fare, all’aperto, sul litorale. Vestiva con un costume aderente che le copriva le forme ancora non pronunciate, ma che intravedevo già ben fatte,  ed aveva in testa una cuffia da nuotatrice che forse le sarebbe servita per i successivi tuffi che non vedevamo l’ora di effettuare dopo quelle noiose sedute di ginnastica sportiva. Ma quello che più eccitò la mia fantasia di adolescente fu il leggero incavo del suo costume, appena al di sotto della prominenza del pube, quasi che il tessuto  fosse stato risucchiato dall’interno. Per me quella fu forse la prima esperienza sessuale, anche se non ne percepivo al momento il vero significato e non conoscevo  ancora, peraltro, la vera conformazione del corpo femminile. Una visione inaspettata, tanto che tenevo lo sguardo su quel particolare quanto più potevo per fissarmelo bene nella mente. Lei sembrava non accorgersene, visto che mi guardava di tanto in tanto con un sorriso che sembrava innocente e senza alcuna velleità di seduzione. Ma quella prima esperienza mi avrebbe in seguito disvelato un mondo fino ad allora sconosciuto, nel quale avrei fatto l’ingresso qualche anno dopo, per poi esplorarlo in tutti i suoi piacevoli aspetti.

Mi accinsi allora, ancora col pensiero rivolto alla dolce visione che mi avrebbe senz’altro inquietato nei miei sogni a venire, a passare la notte in quello spoglio dormitorio, certo che il mio sonno sarebbe stato ben leggero, un po’ per la paura degli attacchi nemici, un po’ perché ancora aleggiava nell’aria quel sentore di giovani corpi che, sapevo, avevano abitato in quel posto, e di cui percepivo, forse soltanto nella mia fantasia eccitata, la presenza.

Decisi di sistemarmi quindi su una delle brande in basso, cercando di non pensare alla sconosciuta che aveva certamente occupato quel letto. Ma nell’alzare il lenzuolo che era sotto la coperta scoprii, con mia grande meraviglia, che qualcuno aveva lasciato un foglietto, evidentemente strappato da un quaderno, o meglio da un diario, visto che in cima era impressa una data recente, con una sola frase, scritta con una grafia chiara e decisa, che valutai appartenere a una persona istruita, sul quale era annotato: “Incontriamoci domani al lotto 285.”

  Subito mi chiesi chi potesse essere stato a conoscenza di quella mia persistente ricerca di quel luogo e mi sovvenne allora il primo sogno, quello iniziale, nel quale, avendo avuto da un biglietto l’indicazione di un lotto a me sconosciuto, avevo attraversato un cavalcavia che sormontava fabbricati allineati, che dovevano essere quelli di uno scalo ferroviario,  e mi ero alla fine imbattuto nella costruzione semidistrutta che ritenevo essere la meta di ciò che mi veniva indicato. Ma chi poteva essere il destinatario di quel secondo appuntamento? Non certo io, che ero capitato lì per caso, né una delle ragazze che avevano abitato in quel luogo, poiché esse potevano scambiarsi a voce eventuali messaggi senza ricorrere a quel sotterfugio prima di andarsene, né uno degli insegnanti con cui le ragazze non avrebbero aver avuto una tale confidenza da dargli (o darle) un appuntamento così preciso, se non per un improbabile incontro amoroso? Forse un militare che si fosse rifugiato in quella caserma per non venire scoperto dal nemico, o forse proprio un soldato nemico che si fosse aggirato da quelle parti in cerca di fuggitivi dell’esercito allo sbando?

  Questi pensieri mi vorticavano nella mente mentre mi apprestavo a passare la notte in quel luogo che stava diventando sempre più misterioso, visto che non era più un sogno al quale avrei potuto aggrapparmi. Misi quindi il foglietto nella tasca interna della giacca, che poi mi tolsi e poggiai su uno sgabello vicino, per stare più comodo nell’approssimarsi del sonno, e mi coricai. Fu un sonno leggero, agitato, senza sogni, forse dovuto al fatto che non avevo mangiato alcunché durante la giornata, e visto l’ambiente poco ospitale nel quale mi trovavo, una lunga e fredda camerata, o forse perché continuavo a rimuginare nella mia mente cose passate, dai ricordi d’infanzia agli incontri più recenti con uomini, animali e cose che si erano fissati nel mio inconscio ma che stentavano a trasformarsi in sogni. E i sogni, si sa, per quanto piacevoli possono essere, svaniscono all’alba.

Dopo qualche ora di breve riposo mi destai e mi rizzai sul letto, madido di sudore e con la sensazione di essere spiato attraverso uno degli oblò del fabbricato dal quale filtrava una debole luce mattutina.

Intravidi un’ombra che passava sotto le feritoie sferiche, ma poi mi accorsi che non era fuori, all’aperto, ma dentro la camerata, e strisciava quasi per terra, passando sotto i letti a castello che gli (o le) ostacolavano il cammino furtivo. Notai che aveva una pistola infoderata alla cintola ma che non era in divisa militare. Appena mi vide fece per estrarre l’arma ma subito si fermò vedendomi disarmato e ancora sotto l’effetto del sonno. Era una donna, sui trent’anni, aveva una specie di vestito grigio-verde, che consisteva in una giubba di foggia austera, una gonna il cui orlo le arrivava appena sotto le ginocchia, calzettoni ripiegati alle caviglie, e scarpe civili senza tacco. Aveva in testa un largo basco, che le pendeva da un lato, capelli corti e un’aria vagamente mascolina, essendo la sua figura priva di trucco o di orpelli che dichiarassero la sua appartenenza al sesso femminile. Sembrava più una suora laica, anche se certamente più agguerrita di una semplice figlia di Gesù.

Credetti per un momento di aver visto quella fisionomia in alcune foto di una rivista del regime, che propagandava l’adesione di giovani donne al corpo delle ausiliarie. Perciò ebbi il sentore di trovarmi di fronte a una fanatica del nuovo regime che si era costituito al Nord subito dopo la fuga del re e del governo legittimo, e cioè di una appartenente al fronte opposto al mio, che si sarebbe impegnato, a breve,  nella difesa della patria contro gli occupanti stranieri che spadroneggiavano nel nostro paese.

Ma comunque mi apprestai a rivolgerle la parola, vista la sua completa arrendevolezza di fronte a uno sconosciuto quale io ero per lei.

Ella, tendendo i palmi delle mani aperti avanti a sé, in segno di pacificazione, mi si avvicinò e mi tese la mano destra con fare sicuro e quasi cordiale, anche se con qualche reticenza iniziale. Mi fissava negli occhi, quasi aspettasse da me un qualche segnale rassicurante, ma io, quasi brutalmente, dopo aver ricambiato la stretta,  le chiesi. “Cosa ci fa lei in questo luogo e perché porta un’arma?”. E lei rispose, con una voce sicura e dall’accento quasi militaresco. “Sono la direttrice del coro delle giovani universitarie che hanno fatto sosta in questa caserma prima dei bombardamenti. Mi sono attardata  qui, in spregio ai regolamenti che mi dicevano di raggiungere il mio corpo, perché avevo bisogno di verificare che almeno uno dei biglietti che avevo scritto fosse pervenuto nelle mani giuste. Ma, a quanto vedo mi trovo di fronte a un transfuga, se non a un disertore dal regio esercito che fino a pochi giorni fa era nostro alleato. Le mie ragazze ora si trovano all’università, in luogo sicuro, ma io ed altre ausiliarie a me fedeli, stiamo cercando di organizzare una qualche azione di supporto alle truppe del costituito nuovo governo della Repubblica.” Scandì il nome “Repubblica” con una certa enfasi e notai nel suo sguardo un certo atteggiamento di sfida nei miei confronti, pur non sapendo ancora di quale parte del conflitto fossi sostenitore.

Confesso che rimasi affascinato dalla sicurezza e determinazione della donna nell’espormi le sue convinzioni, ma dubitavo, nel contempo, che quello che aveva detto fosse stata tutta la verità. Ma lei continuò, quasi aspettassi una sua rivelazione: “Il lotto 285 è come un isola, ciascuno di noi tenta di raggiungerla come fosse una meta agognata dove rifugiarsi dallo sfacelo della guerra. Chiunque avesse trovato, prima o poi, quel biglietto avrebbe avuto questa opportunità, ma sembra che tu sia deciso a raggiungere un altro luogo, più concreto e visibile, dove possa svolgere i tuoi compiti di guerrigliero, ed io non posso impedirtelo”. Poi si allacciò la giubba,  che si era scomposta nel tentativo di mimetizzarsi, fece un cenno di saluto toccandosi il basco sulla fronte e sparì dalla mia vista, come un fantasma. Era la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con un avversario e non sentire il dovere di affrontarlo. Ma prima di lasciare quel luogo, ché era giorno fatto, volli assicurarmi della veridicità di quanto mi aveva detto l’ausiliaria,  e, preso da un impulso irrefrenabile, scoprii tutte le brande della camerata e trovai su ciascun materasso lo stesso messaggio, vergato forse più frettolosamente, che ora era custodito nella mia tasca.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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